Bohemian Rhapsody: la recensione del film con Rami Malek nei panni di Freddie Mercury
Il film, che racconta più di un decennio della carriera dei leggendari Queen, arriva nei nostri cinema il 29 novembre.
Freddie Mercury che si sistema i baffi, mentre i suoi gatti lo guardano. Freddie Mercury che in casa ha una foto gigante di Marlene Dietrich, perché lo sappiamo tutti com'è la copertina di Queen II. Freddie Mercury che apre una valigetta nera, e assieme al suo microfono cromato ci sono, sistemate come fossero parti di un fucile da assemblare, le amate sigarette e una bottiglia di vodka. Freddie Mercury che sale sulla Rolls e va a Wembley, la mattina del 13 luglio del 1985, per una ventina di minuti di concerto che avrebbero fatto storia.
Una manciata di minuti, durante i quali peraltro Mercury non si vede in volto, e subito capisci che film è questo Bohemian Rhapsody, che ha iniziato un regista, Bryan Singer, e che ha finito un altro, Dexter Fletcher. Poi dal Live Aid si torna al passato, a quando Mercury era ancora Freddie Bulsara ma già sapeva di essere destinato a diventare un performer straordinario che tutti conosciamo ("the person I was always meant to be," dice nel film), e vediamo in faccia Rami Malek, e il trucco per restituire le celebre dentatura del cantante dei Queen, e ogni dubbio residuo viene dissipato.
Iconografia. Iconografia e retorica, e superficie. E semplificazioni.
Su questo si basa, Bohemian Rhapsody, su questo e su un accumulo di scene madri utili al tentativo - quasi sempre vano - di catturare perlomeno un riflesso del carisma iconoclasta e teatrale di Mercury, la consapevolezza del suo essere oltraggioso ("non troverete nessuno più oltraggioso di me", dice ai suoi futuri compagni di band, dove outrageous sta anche però per "sensazionale"); utili a ricostruire la storia di un gruppo che ha fatto la storia della musica, stando sempre bene attenti a mettere in buona luce Brian May e Roger Taylor, a sottolinearne i talenti. Perché son pur sempre loro i produttori del film.
Da Wembley si parte e a Wembley si torna, e in mezzo c'è tutto quello che c’è da sapere, o che i Queen odierni ci tengono a farci sapere. Con una sceneggiatura che a tratti piazza pure qualche efficace battuta carica di pungente humour britannico, ma che, oltre a non avere molto rispetto per la reale cronologia degli eventi o per la veridicità delle situazioni raccontate (e questo si può fare), ne ha anche poca per le esigenze dello spettacolo e del racconto cinematografico (e questo va meno bene), limitandosi a illustrare un percorso tutto sommato agiografico ed edulcorato che riguarda tanto Mercury quanto la band nel suo complesso.
Ma anche volendo tralasciare tutto questo, e farsi andare bene anche certa sciatteria formale, il trucco e parrucco odontoiatrico, l'uso sconsiderato del green screen e il procedere balzellon balzelloni, come Red Max, da una scena all'altra, perché insomma la storia produttiva travagliata del film non poteva non lasciar segni, c'è una cosa di Bohemian Rhapsody che è difficile perdonare: l'essere riuscito a smorzare perfino il potenziale emotivo di quella leggendaria performance live attorno alla quale si è costruito, e della musica tutta dei Queen. Che, quando appare, tiene a galla la baracca, ma che quando è assente, la lascia navigare verso il suo destino.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival