Bellas mariposas - la recensione del film di Salvatore Mereu
Per tenere in piedi un castello di carte qual è Bellas mariposas ci volevano una mano fermissima e leggera, l’incoscienza che permette di osare e la prudenza assennata che frena dall’esagerare.
Per tenere in piedi un castello di carte qual è Bellas mariposas ci volevano una mano fermissima e leggera, l’incoscienza che permette di osare e la prudenza assennata che frena dall’esagerare.
Perché quello tratto dall’omonimo racconto di Sergio Atzeni è un film affascinante ma dagli equilibri delicatissimi, che Salvatore Mereu ha avuto l’impudenza e la capacità di mantenere in piedi e di far dispiegare in tutte le sue potenzialità.
Non era di certo facile rendere non solo tollerabile ma intrigante e via via più coinvolgente la storia di una 12enne che abita la periferia degradata di Cagliari e che, nel corso di una giornata topica, deve confrontarsi con una normale amministrazione fatta di fratelli tossici, sorelle prostitute, padre nullafacente ed erotomane, povertà e fatica, alla quale si aggiunge perfino la minaccia dell’uccisione di un suo innamorato da parte di un altro fratello che ama fare il bullo. Senza peraltro sfociare nei cupi e depressi naturalismi del cinema più retoricamente punitivo.
E di certo non era facile gestire questa narrazione utilizzando come strumento primario una sorta di monologo della protagonista che racconta la sua vita e i personaggi che la animano rivolgendosi direttamente allo spettatore con lo sguardo fisso in macchina.
La sua scommessa, però, Mereu la vince a mani basse, sbagliando pochissimo o nulla, facendo di Bellas mariposas un film capace di esaltarsi e di esaltare proprio in virtù dei rischi che corre e della libertà e della leggerezza formali e di tono che segue.
Come la bella fotografia firmata da Massimo Foletti, quello del regista sardo è un film solare e vibrante, energetico e pieno di vita, capace di raccontare lo squallore e le bruttezze del mondo senza farsene assorbire ma considerandoli solo come dati oggettivi cui fanno da contraltare le piccole, grandi gioie delle vita dalle quali la piccola Caterina si aggrappa senza disperazione né revanscismi, ma con leggerezza e freschezza, con spirito sereno e mai domo, amaro solo nel retrogusto.
Seguendo la giornata vorticosa, gli stati d’animo ondivaghi e le peregrinazioni mentali e fisiche della sua protagonista, Bellas mariposas ci accompagna alla scoperta del microcosmo di un quartiere e delle vie di una città, con una curiosità sana e mai morbosa, mostrando il brutto e il bello senza moralismi né estetizzazioni, con la purezza non più ingenua di una preadolescente che della vita già sa tutto ma che la sua deve e può ancora costruirla come meglio crede.
Ed è così che dal tentativo di evitare un gesto violento e mortifero, la giornata di Caterina si traduce nella riscoperta e nella rifondazione di un nucleo familiare dove è il femminile che, con tutte le sue contraddizioni, rappresenta il saldo ancorarsi alla possibilità e alla speranza, nel contesto di un mondo maschile destinato invece a morire dei suoi stessi mali, all’esilio vergognoso, alla sconfitta sul fronte personale e collettivo.
Guardando Bellas mariposas si rabbrividisce e al tempo stesso si ride, ci si appassiona e ci si perde nel caleidoscopio di luoghi e volti che Mereu sfiora e racconta; si perde lo sguardo nella libertà totale e priva di qualsiasi preconcetto e ideologia della sua macchina da presa.
E ci si commuove quando Caterina e la sua migliore amica toccano con tutto il corpo la freschezza liberatoria che un bagno al mare può garantire e quando, rinsaldate da un legame nuovo e antico, si sorridono a tavola con madri e sorelle (in)certe di un futuro tutto da scoprire e comunque migliore.
Nel panorama del cinema italiano di questi anni, Bellas mariposas parla una lingua nuova che in molti dovrebbero avere voglia e coraggio d’imparare.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival