Barbie: la recensione del film di Greta Gerwig con Margot Robbie e Ryan Gosling
Una bambola che ha accompagnato la crescita di generazioni in tutto il mondo diventa ora un adattamento molto rosa, in cerca di un divertimento ma anche di molte stoccate femministe. Ecco la nostra recensione del film Barbie.
Non sarà un burattino, da ben più di un secolo al centro di nuove variazioni della storia della sua trasformazione in bambino, mai come in questi ultimi anni. Ma anche una bambola meriterà la sua versione per il cinema, non semplicemente d’animazione, se non addirittura un mito di fondazione. Anche perché, di Barbie stiamo parlando - che si apra un infinito libro di ricordi per generazioni e generazioni - non di una qualunque, ma della bambola che ha interrotto il monopolio delle baby bambole, con lo scopo sì ricreativo, ma in fondo anche sociale di preparare all’imbocco e alla nutrizione una schiera di future mamme, pronte a occupare il loro ruolo imposto in società. Barbie era una ragazza, come chi ci gioca(va), da pettinare e radicalizzare a piacimento.
Ce lo ricorda con un buffo antefatto (prei)storico e kubrickiano Greta Gerwig, per la prima volta alla regia di un film così costoso e rivolto a un pubblico molto ampio, anche lei come d’obbligo cresciuta con la bambola per eccellenza nella periferia di Sacramento, una California che non ce l’ha mai fatta, nel suo tanto atteso adattamento scritto per il cinema insieme al marito Noah Baumbach. Siamo a Barbieland, ovviamente, e la protagonista è una "stereotipica Barbie" interpretata da Margot Robbie, perfetta nell’apparenza, ancor di più nelle sue qualità di interprete e produttrice fra le più significative di quesi ultimi anni. La sua vita è tutta un sorriso, come potrebbe essere altrimenti. Vive con le sue amiche Barbie, ognuna con una qualità e caratteristica specifica. Sono tutte singolarmente significative, pur facendo parte della famiglia Mattel.
Con loro c'è invece un Ryan Gosling mai cosi irresistibilmente stupido (anche se altre volte aveva affrontato personaggi del genere), autoironico e dagli addominali scolpiti nel ruolo di Ken. O meglio di uno dei tanti Ken, visto che nel loro caso invece sono un’orda distinguibile a vista, ma assumono rilevanza (minima e derivata) solo proprio se osservati da Barbie. Il Ken diciamo Gosling amerebbe che la Stereotipica si innamorasse di lui, anche solo accettasse di passare una serata insieme, ma “every night is a girls night”.
Le Barbie occupano posti di potere e responsabilità, mentre Ken, lui “è spiaggia”. Almeno questo riesce ad articolare, in termini di auto consapevolezza del suo ruolo in una società che ci viene raccontata dalla voce fuori campo di Helen Mirren. Proprio mentre impariamo a conoscere il suo mondo, e a notare un bel numero di trovate gustose, in termini quantomeno di luoghi comuni femminili riadattati e capovolti, ecco che la perfezione presunta si incrina, sotto forma di un piede improvvisamente piatto e non più incurvato a prova di tacco importante. Una rivoluzione, insomma, che inizia da una Birkenstock, con la complicità di una sorta di Barbie resistente e danneggiata da frequentazioni del mondo reale, che spinge la nostra Barbie proprio a mettersi in marcia per la costa della California, fra Venice e Los Angeles. Come dire, che almeno non sia troppo scioccante e diverso da Barbieland, il contesto in cui dare un senso ancora più pieno al concetto di live action.
Un Barbie on the road, quindi, anche se il canale di comunicazione fra i due mondi comincerà a infittirsi e il divertimento nel superare la superficie di quanto ci si possa attendere dalle due realtà sempre maggiore, grazie a una sceneggiatura e una regia in grado di appassionare e non annoiare, regalando un bel po’ di risate e di madeleine proustiane al pubblico nostalgico di antiche spazzolate. Sarà coinvolta perfino la Mattel stessa, con un CdA, ovviamente, tutto al maschile e nel ruolo di antagonista, capeggiato da un Will Ferrell in un ruolo d’ordinanza, altre volte interpretato in passato.
L’ironia femminista è sottesa a ogni snodo narrativo di Barbie, tanto da renderlo sempre attivo e dinamico, oltre che mai superficiale, con la barra dritta sul divertimento e lo spiazzamento, sia chiaro, non è che, “grazie a Barbie l’uguaglianza e tutti i problemi del femminismo“ vengano risolti, come ci ricorda la stessa voce fuori campo. Inevitabile, forse, perché prodotto in casa e con 150 milioni di dollari, discutibile, senz’altro, una tirata sulla Mattel delle origini fra il mito fondativo (speriamo si eviti il Mattel Universe) e la lacrima dickensiana. A proposito di lacrima, dopo Babylon, ancora una volta questa così palese e mai abusata esternazione di emozioni gioca un suo ruolo. Se lì dimostrava un talento naturale, qui libera uno stereotipo dalle sue costrizioni. La bambola diventa donna.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito