Babygirl: la recensione del thriller erotico con Nicole Kidman in concorso a Venezia
Una donna di potere e uno stagista, i desideri meno confessabili e la ricerca del piacere femminile sono al centro del thriller erotico Babygirl con Nicole Kidman, che rimanda agli anni '90. La recensione di Mauro Donzelli del film in concorso al Festival di Venezia.
La prima scena è un chiaro manifesto d’intenti, per questo thriller erotico dal sapore anni Ottanta e Novanta, compreso il retrogusto di fragile credibilità. La protagonista, Romy (Nicole Kidman), è una donna di successo, ai vertici di un’azienda con i bilanci e gli uffici ben piantati nel futuro. La vediamo mentre fa l’amore con il marito, salvo poi brutalmente lasciare il talamo nuziale e cercare soddisfazione dal mancato orgasmo in un video visto febbrilmente in un’altra stanza. Diciannove anni insieme, scopriamo poi, e mai un orgasmo, mentre la sua quotidianità viene sconvolta dall’irruzione nella vita lavorativa, ma presto anche nella sfera intima e sessuale, di un ambizioso stagista. Nonostante la differenza di età e posizione nelle gerarchie aziendali, il giovane Samuel è arrogante il giusto e sembra proprio non soffrire la disparità.
Un primo passaggio di tanti arditi e sbrigativi con cui la vicenda di Babygirl perde presto contatto con la credibilità e ondeggia pericolosamente verso il ridicolo, assumendo però posizioni sempre più seriose e prive di una salvifica ironia che avrebbe reso senz’altro meno risibile lo svolgimento di un thriller che avrebbe avuto frecce al suo arco. Soprattutto come punto della situazione sul piacere femminile, facendo emergere fantasie (apparentemente) proibite, ma chissà poi perché, come la dominazione e la sottomissione. Eppure questa cupa cappa appare presto nella dinamica fra i due, paradossalmente assumendo presto quella posizione di giudizio morale che teoricamente vorrebbe denunciare. Pulsione sintetizzata come “bestia interiore” dalla regista, l’olandese Halina Reijn, di casa nell’universo A24, sempre attento a rivendicare rivoluzioni nel racconto di usi e costumi della nostra società.
Ci sarebbe la relazione di potere, quella al di fuori della sfera della dinamica sessuale, che la condiziona e che presenta per una volta una donna al vertice della piramide. Proprio il richiamo all’ordine femminista da parte di una giovane collega, suo malgrado coinvolta da un accenno di triangolo, richiama l’amministratrice delegata al rispetto di una leadership al femminile in rottura con quella patriarcale della “vostra generazione”. È anche uno scontro fra generazioni quello invocato in Babygirl, quello contro i disinteressati al piacere della partner, mai un pensiero sull’orgasmo mancato, quello di una generazione che rivendica la vulnerabilità e la spietata sincerità come valore, anche in ambito lavorativo. Nicole Kidman ha sposato con evidente e sincero entusiasmo questa storia di liberazione dalle ossessioni sull'aspetto fisico, mostrandosi con coraggio.
Fra demoni e svolte che strappano più risate che riflessioni (che siano volute o meno), il problema principale di Babygirl è proprio la mancanza di disincanto nella denuncia, di una struttura che regga dal punto di vista cinematografico e di genere. Tutto giusto, o almeno molto, ma la morale impone di riconvertire la relazione fedifraga all’interno dei peccati che tormentano, riconducendo tanta lungimiranza sociale in canoni più convenzionali. E deludenti. A vedere la sessualità come parte di un problema, come trauma che rimanda “alla fottuta infanzia”, come un demone da reprimere o assimilare. Gran confusione a ogni livello, ma confezionato con carineria trendy.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito