Arrival: recensione del film con Amy Adams in concorso al Festival di Venezia 2016
Denis Villeneuve è bravo come sempre e azzecca cose notevoli: però annega il genere nella filosofia, con troppo Malick e troppo poco Spielberg.
Sembra proprio che oggi, la fantascienza, non la si possa fare se non ci si mette in mezzo la filosofia. Che in uno spettro ideale che va dagli Ultimatum alla Terra e La guerra dei mondi degli anni Cinquanta e Tarkovskij, si debba stare necessariamente, il più possibile, a ridosso del secondo. L'esempio più recente è ovviamente quello di Interstellar, e l'ennesima conferma arriva - pun not intended - anche da Arrival
"Lo Spielberg di Incontri ravvicintati che incontra il cinema di Terrence Malick," aveva raccontato Alberto Barbera, dimenticandosi però di sottolineare la preponderanza solenne (ed estetizzante) del secondo, che penalizza e mortifica un po' la relativa penuria della meraviglia puramente e magicamente infantile e cinematografica del primo.
A Truffaut bastavano cinque note cinque per comunicare con gli alieni, qui la linguista Amy Adams deve sudare sette camicie per decifrare un linguaggio scritto che pare un incrocio tra il cerchio lasciato da una tazza di caffé su una tovaglietta bianca e il logo di The Ring.
Già, perché la scrittura degli chtuliani eptopodi del film di Villeneuve è circolare, come circolare è il loro modo di pensare, e il loro rapporto con quel tempo che per noi è lineare. E quindi, siccome si cita esplicitamente l'Ipotesi di Sapir-Whorf (secondo la quale, in soldoni, la lingua che si parla influenza direttamente il modo di pensare), ecco che lentamente alla Adams si rivela il vero dono degli alieni, capace di causare i paradossi utili alle sottolineature filosofiche di cui sopra, che mescolano le acque della fantascienza come i flashback e forward che costellano il racconto.
Tanta scienza, piazzata in maniera divulgativa ma mascherata da qualcosa di più, un gran potenziale metaforico annacquato dal contaminarsi del genere col l'autorialità dal pensiero profondo, molto bel cinema, in Arrival.
Villeneuve è bravo, e lo sappiamo; gira bene, azzecca cose notevoli, immagini e situazioni di grande efficacia (non ultime quelle degli alieni e della loro "calligrafia"). Peccato non si sia limitato a raccontare l'importanza del dialogo, della comprensione reciproca, di una lingua comune, ma abbia abbracciato le tendenze più pompose che portano a focalizzarsi (spesso con sfocature d'artista) su esistenzialismi non sempre davvero necessari, messi lì per darsi un tono.
Se il canadese avesse guardato più alla voglia di stupire di Spielberg, che alle pedanterie filosofiche e new age di Malick e derivati, Arrival sarebbe stato molto più di quello che è: sarebbe stato, forse, un grande film.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival