Alien: Covenant, recensione del nuovo capitolo della saga di Alien diretto da Ridley Scott

07 maggio 2017
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Dopo Prometheus, prima del film che ha dato inizio a tutto, nel lontano 1979.

Alien: Covenant, recensione del nuovo capitolo della saga di Alien diretto da Ridley Scott

Nello spettro ideale che va da Prometheus al primo Alien, Alien: Covenant è molto più vicino al primo che non al secondo. Ma non perché sono di meno gli anni reali che li han separati: la comunanza è prima di tutto ideale, direi ideologica, e di certo non si può accusare Ridley Scott di mancare di coerenza.

Poi, certo: nel terzo atto del film l'identificazione tra il personaggio di Daniels interpretato da Katherine Waterston e la Ripley di Sigourney Weaver si fa via via più evidente, e in scena entra lo xenomorfo così come lo conosciamo tutti grazie ai film che compongono la quadrilogia originale.
Però, quello che conta davvero - e che in qualche modo torna a contare nel finalissimo a sorpresa che poi tanto a sorpresa non è - è quello che viene enunciato nella scena iniziale. È la domanda "da dove veniamo?", quella alla quale Weyland vorrebbe rispondere di fronte al suo David appena creato, quando il sintetico con le fattezze di Fassbender gli domanda (appunto): "se tu hai creato me, chi ha creato te?".

Come e più che in Prometheus, anche in Alien: Covenant le ragioni della filosofia sono quelle che dettano il ritmo e l'azione, quelle dello spettacolo ne sono quasi solo una conseguenza, una filiazione inevitabile; il film è il risultato dell'ibridazione di questi due distinti organismi, dove la prima è il parassita che infetta e rigenera il secondo.
Lontani anni luce, quindi, dall'essenzialità ruvida e minimalista del film del '79, puro cinema horror capace di trascendersi e farsi metafora di qualcosa di più profondo, che sempre la generazione riguardava.

Più pericoloso dell'uomo che volle farsi re, solo l'uomo (?) che vuole farsi Dio.
Così si potrebbe sintetizzare il nuovo film di Ridley Scott, che mentre per Alien partiva dall'inconscio, qui mette tutte le carte della Ragione in tavola, ben piazzate e allineate, a partire dall'occhio in primissimo piano che apre il film che è una dichiarazione di sguardo e punto di vista, passando per Wagner e le ossessioni di Billy Crudup per la fede, senza contare i tanti legami matrimoniali che si spezzano, nel film, impedendo quindi nuove generazioni.

Sono cambiati i tempi, sono cambiati soprattutto gli sceneggiatori, e questi di oggi ti spiattellano tutto sotto il naso, non son capaci di sottotesti, indicano col neon dove devi guardare, scelgono le soluzioni più ovvie e prevedibili a ogni bivio narrativo (l'ho già detto del finalissimo a sorpresa che poi tanto a sorpresa non è?) e fanno dei protagonisti personaggi che parlano in maniera irreale e po' ridicola, facendogli commettere errori e castronerie perché così è più facile dipanare la matassa della trama.

Sono cambiati i tempi, ma per fortuna la mano di Scott rimane quella di sempre, capace di mettere tutte le pezze che servono, o quasi tutte, di scegliere le facce giuste per le parti giuste (l'equipaggio della Covenant è un piccolo miracolo di casting) e di raccontare con la stessa incisività la sospensione del cammino, la suspense dell'attesa, l'adrenalina della fuga, del terrore, della lotta.

Come le guarda lui, le stelle, non le guarda nessuno. Anche se, e non sarà certo un caso, l'incidente che risveglia l'equipaggio della Covenant all'inizio del film ricorda tantissimo quello di Passengers, e i pianeti abitabili da colonizzare (con i rischi nascosti che contengono) fanno tornare alla mente la recente scoperta del sistema solare di Trappist 1. Sono allora queste, non altre, le vere paure inconsce che Scott lascia emergere.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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