AIR - La storia del grande salto: la recensione del film
Tornato dietro alla macchina da presa, Ben Affleck gira un altro gran bel film, sorkiniano nei dialoghi e nello spirito. Raccontando dello storico accordo tra la Nike e il giovane Michael Jordan, AIR è un insolito sport movie che parla di tante cose di allora e di oggi. La recensione di AIR - La storia del grande salto di Federico Gironi.
La storia che racconta AIR, lo saprete sicuramente tutti, è la storia di un accordo commerciale, quello tra Nike e Michael Jordan, che ha fatto la storia. La storia dello sport, del marketing e del commercio mondiale. La storia della Nike, che grazie a quell’accordo ha superato i brand concorrenti diventando leader mondiale nel settore delle calzature sportive, fatturando centinaia di milioni di dollari, anno dopo anno, fino a far diventare miliardi quei milioni. La storia dello stesso Jordan, non solo per i soldi che si è portato e che continua a portarsi a casa (ci sono stime che parlano di un miliardo e mezzo di dollari dal 1984 a oggi), ma per aver fatto di sé stesso un’icona anche fuori dal campo. La storia della cultura popolare contemporanea, considerato l’impatto che le Air Jordan e l’abbigliamento con quel marchio hanno avuto non solo sulla sneaker culture ma sullo stile e i modi e le inclinazioni culturali di varie generazioni.
Ovviamente tutto questo è dentro al film diretto da Ben Affleck, che è regista tutt’altro da sottovalutare, come già avevano dimostrato le sue regie precedenti.
Ma, proprio perché Affleck è regista tutt’altro da sottovalutare, in AIR c’è anche molto altro. Il suo non è soltanto uno sport movie che non mostra praticamente mai momenti di sport giocato e che pure, allo stesso tempo, segue tutte le regole implicite di questo amato sottogenere del cinema americano in cui riscatto e riscossa sono parole chiave. Non è soltanto un film capace di ricostruire e fotografare gli anni Ottanta in una maniera quasi definitiva, per cultura e spirito, e non solo per iconografie o musica.
AIR, ed è la cosa più importante, è il film in cui Affleck racconta sì la storia di un accordo, ma prima di tutto di come si sia giunti a quell’accordo. Che poi, oltre a essere la cosa più importante, è quella che rende questo film così attuale e contemporaneo.
La sceneggiatura di Alex Convery (inserita nella famosa Black List, la lista dei migliori copioni in circolo sulle scrivanie di Hollywood, nel 2021) è chiaramente sorkiniana, e non solo per il peso che viene dato ai dialoghi, che sono continui e costanti, ma anche per l’approccio alla storia, ai personaggi, ai legami con un quadro più grande di quello della specifica vicenda.
Affleck - che, mi pare sia stato detto, è regista intelligente - utilizza una messa in scena classica, pulita, lineare. Da cinema pre-digitale, almeno. E abbraccia senza esitazioni questa matrice sorkiniana, andando a pescare, dall'amico fraterno Matt Damon fino all’ultimo dei comprimari, tutti perfetti, l’attore giusto per ogni personaggio, dove per giusto s’intende prima di tutto la capacità di reggere il dialogo e dargli peso e spessore, e lo stesso per i momenti di silenzio, seppur rari.
In questo modo, anche cattura quel come di cui abbiamo parlato, e che possiamo sintetizzare in queste poche e chiare parole: il fattore umano.
Nessuno, nemmeno il suo amico Phil Knight (che Affleck sceglie di interpretare in prima persona, costruendo un ritratto affettuoso e ironico del celebre e idiosincratico fondatore della Nike), credeva nell’intuizione di Sonny Vaccaro. Nessuno credeva che la mossa che Vaccaro ha inseguito con tutte le sue forze, mettendo a rischio la sua vita professionale, fosse quella giusta, e nessuno credeva che, in ogni caso, quella mossa avrebbe dato il risultato sperato, ovvero la firma di Michael Jordan sul contratto.
Non ci credeva nessuno perché, allora come oggi, si crede ai numeri, alle statistiche, al buon senso più pigro. Non ci credeva nessuno perché dare retta a Vaccaro significava deviare dai pattern più strutturati e abituali. Non ci credeva nessuno perché il consiglio di amministrazione non avrebbe mai approvato, perché nella logica del corporate business, e in quella della gestione di un’azienda quotata in borsa quella mossa era pura follia.
Per dirla in termini contemporanei: l’algoritmo non approvava.
E invece.
Invece sappiamo com'è andata.
E sappiamo, dopo aver visto AIR, che è andata come è andata perché a volte quello che gli anglosassoni chiamano il gut feeling, ovvero l’istinto, che per sua natura è inspiegabile, o difficilmente spiegabile, attraverso il ragionamento razionale, è l’unica cosa che permette di fare conquiste impossibili, e i grandi salti di qualità e livello. Perché i numeri, le logiche aziendali, e gli algoritmi l’istinto non ce l’hanno.
Ed è andata così perché Vaccaro, nel cercare di portare a casa il risultato che voleva, ha giocato la stessa carta, l’unica a sua disposizione, la stessa che riguardava il suo istinto: ovvero fare leva sul rapporto umano, uscendo dai confini freddi del business, infrangendo qualche regola, ma mettendo al centro del suo rapporto lavorativo con la famiglia Jordan il proprio essere, la propria sincerità, l’interesse nella parabola di un giocatore che non è mai solo sportiva, o economica, ma anche umana.
Il monologo - sorkiniano pure lui - che tira fuori Vaccaro nel corso dell’incontro definitivo e fondamentale con i Jordan, un discorso figlio dell’istinto e non della logica, e che è trascinante e a suo modo quasi commovente, sta lì a dimostrarlo.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival