A German Life: recensione del documentario sulla segretaria di Goebbels
Un'intervista torrenziale all'ultima testimone di un'epoca.
Brunhilde Pomsel non ha praticamente mai rilasciato interviste. Lo fa la prima, e unica volta, raccontando in A German Life - oltre trenta ore, poi diventate meno di due - i suoi 105 anni. Meglio, racconta quelli fra il 1933 e il 1945: gli anni del regime nazista vissuti da una giovane ragazza prussiana educata col rigore di un padre che la Prima guerra mondiale l’ha combattuta dal primo all’ultimo sparo. Il 30 gennaio del ’33, quando in piazza davanti alla Porta di Brandeburgo in decine di migliaia festeggiarono il nuovo governo nazista lei c’era, spinta dal findanzato sedotto dal nuovo che avanzava. Anche se non era un grande amore, visto che questa figlia del Reich non si è mai sposata, né ha avuto figli. Spinta a iscriversi al partito per la promessa di un futuro professionale più favorevole, viene assunta alla radio pubblica, con uno stipendio più che doppio rispetto a quello delle sue amiche. Almeno quelle col il sangue in regola, visto che Elena Lowenthal, con cui andava spesso a prendere un caffè o una birra (“ma offrivamo sempre noi”) era disoccupata, povera ed ebrea.
La macchina da scrivere diventa la sua piattaforma di affermazione professionale: è la più veloce di tutte, tanto da venire richiesta al Ministero della Propaganda nel 1942. Lavora nell’ufficio di segreteria del ministro Goebbels proprio nei tre anni in cui la guerra iniziò a mettersi male per i tedeschi, e la soluzione finale del problema ebraico passava dalla fase teorica a quella realizzativa. “Lo so che non mi crederete, ma non sapevo quello che stava succedendo”, dice nel corso del documentario, presentato al festival di Monaco e ora di passaggio in sala per la Giornata della memoria, prima di uscire in home video. Non si chiama mai Olocausto, sterminio o soluzione finale. La Pomsel ripetutamente si difende, dice che ha creduto per molti anni che gli ebrei fossero partiti per andare a popolare le campagnie lasciate libere dai tedeschi dei Sudeti. Il valore di testimonianza di A German Life è enorme; si tratta probabilmente dell’ultima testimone vivente che è stata testimone degli anni di decisioni quotidiane all’interno degli alti vertici del regime nazista.
Di Goebbels racconta la quotidianità di padre affettuoso, il fatto che fosse elegante e gentile (“se solo fosse stato più alto”), dai modi sempre pacati. “Solo una volta l’abbiamo sentito urlare, ed eravamo tutti sconvolti”, dice dell’uomo verso il quale provava pena per la sua zoppia. I quattro autori del documentario hanno optato per una messa in scena di grande rigore: un bianco e nero, con la protagonista ripresa spesso con primissimi piani impietosi, solcando con insistenza la sua pelle segnata dal secolo di vita. Gli unici inserti, scelti con molta cura, sono filmati d’epoca, spesso inediti, a sottolineare quella propaganda, ora nazista ora americana, che ha avuto parte decisiva nella vita della segretaria di Goebbels. Perché del suo lavoro quasi non parla, ma era attraverso il suo ufficio che arrivavano i dati reali dell’andamento della guerra all’est, dei morti o delle donne stuprate, che venivano ingigantiti o accantonati a seconda delle esigenze.
“Fossero stati zitti sarebbero ancora vivi”, dice di Sophie Scholl e dei coraggiosi cospiratori antinazisti della Rosa bianca. Di questo evento, quello che più le è rimasto impresso negli anni è l’orgoglio per non aver sbirciato nel dossier del caso, come richiestogli dal suo capo che glielo aveva lasciato sulla scrivania.
“Il bello ha le sue macchie e anche la cosa più orribile ha le sue zone di sole”, dice a un certo punto la Pomsel, che su questa lunghezza d’onda resterà nel corso di tutta l’intervista, definendosi una persona che non oppone resistenza, codarda, rimandando al mittente le accuse di chi, oggi, è convinto che avrebbe agito diversamente. “Non vi rendete conto di cosa volesse dire quell’epoca, farlo voleva dire rischiare la vita, il Paese era sotto una campana, eravamo tutti in un grande campo di concentramento”. Impossibile per lo spettatore evitare di domandarsi come avrebbe agito in quegli anni.
Parlando di sterminio, quando il documentario si avvicina alla fine le sue battute diventano più brevi, il ritmo si fa insistente e vengono mostrate delle immagini assolutamente insostenibili: da un filmato mai mostrato in pubblico, in cui la propaganza nazista voleva dimostrare che era parte integrante della normale vita quotidiana degli ebrei finire morti per stenti e fame al bordo della strada, alle prime immagini girate dagli americani alla liberazione di un campo.
“Non mi definirei colpevole, a meno di non incolpare tutto il popolo tedesco”, dice in chiusura Brunhilde Pomsel, riecheggiando per l’ennesima volta un dibattito in atto da decenni in Germania, passato attraverso il tornado provocato dall’uscita de I volonterosi carnefici di Hitler dello storico Goldhagen, per arrivare alla recente biografia di Peter Longerich dedicata proprio al più fedele seguace del Führer. A German Life è un titolo perfetto per un film da non perdere, inquietante e ripugnante a tratti, su una tedesca come milioni, quei milioni che offrirono il terreno fertile su cui la Germania, con radici ben più antiche del nazismo, edificò l’orrore del Terzo Reich.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito