Toronto Film Festival: Le Mans '66, Lucy in the Sky e gli altri film presentati
Notevole dramma American Son con Kerry Washington, adattamento dello spettacolo teatrale di Broadway.
Dopo il grande e meritato successo di una contaminazione di generi quale era Logan - western crepuscolare chiaramente mascherato da cinecomic - James Mangold è tornato a un’idea di cinema molto più classico con Ford v Ferrari (Il titolo italiano è Le Mans ’66) e il risultato è stato ugualmente apprezzabile. La storia dell’edizione del 1966 della mitica 24 Ore di Le Mans, in cui Henry Ford decise di sfidare il dominio di Enzo Ferrari, vede protagonisti il costruttore Carroll Shelby e il pilota Ken Miles: personalità molto diverse tra loro, anche problematiche nel caso del secondo, che però erano accomunate da un solo obiettivo, l’eccellenza. Il biopic di Mangold possiede il respiro, oseremmo dire l’epica, dei classici degli anni ‘40 e ‘50. La sceneggiatura in qualche modo torna a flirtare con il western, soprattutto quello di Howard Hawks dove due protagonisti trovano il modo di convivere al fine di portare a termine la loro missione. Non ci sono zone d’ombra, non c’è ambiguità morale o ideologica nell’universo cinematografico di Ford v Ferrari, e questo probabilmente lo rende ancora più “classico” degli altri elementi precedentemente citati. Lo spettacolo che il film propone al pubblico fonde con abilità intrattenimento e buone caratterizzazioni psicologiche. Matt Damon e Christian Bale si dimostrano protagonisti affiatati, supportati da attori di contorno importanti quali Jon Bernthal, Cartiona Balfe, Tracy Letts, Josh Lucas e Noah Jupe, giovane attore visto già in A Quiet Place che si sta imponendo come piccola promessa del cinema americano. A Toronto ha portato anche Honey Boy, dove ci ha regalato una prova molto più matura della sua età ancora acerba.
La storia vera di Harriet Tubman, donna che riuscì a scappare alla schiavitù dal Delaware alla Pennsylvania per poi diventare una delle maggiori artefici della Underground Railroad, avrebbe meritato un film con una minore propensione verso il melodramma. La regista Kasi Lemmons (La baia di Eva) ha lavorato su una sceneggiatura on cui la retorica del politically correct spesso prende il sopravvento sul realismo di situazioni e personaggi. Il film funziona soprattutto perché la figura storica della Harriet e di ciò che ha compiuto sono qualcosa di talmente importante da superare anche le difficoltà di una messa in scena piuttosto televisiva ed edulcorata. Dietro la confezione patinata di Harriet si intravede la storia vera, e questo basta perché il film arrivi al cuore dello spettatore. La protagonista Cynthia Erivo, già vista in Widows e 7 Sconosciuti a El Royale, dimostra di essere una performer da tenere assolutamente d’occhio.
La storia di Marie Curie è stata invece portata sul grande schermo da Marjane Satrapi, la quale ha adattato la graphic novel Radioactive di Lauren Redniss. Anche in questo caso il personaggio storico avrebbe meritato un trattamento cinematografico migliore: la regista di Persepolis costruisce un melodramma in costume in cui le caratterizzazioni delle figure principali sono piuttosto stereotipate, anche quando avrebbero dovuto sembrare sovversive rispetto alle regole sociali dell’epoca. Un errore ancora più grande è stato probabilmente quello di tradurre in una sceneggiatura i passaggi narrativi del fumetto: quello che funziona sulla pagina disegnata soprattutto quando si tratta della rappresentazione dei sentimenti umani, può risultare incoerente sul grande schermo. E questo succede in Radioactive, dove la psicologia della Curie si contraddice svariate volte perdendo di credibilità. Radioactive però si segnala in positivo per almeno un paio di sequenze molto ben congegnate, in cui vengono raccontati gli effetti delle scoperte scientifiche della Curie. Sia quelli volti a curare le persone che quelli invece adottati per sterminarle. Nel cast oltre alla protagonista Rosamund Pike troviamo anche Sam Riley e un breve ma incisivo cammeo di Anya Taylor-Joy.
L’esordio alla regia di Noah Hawley, creator di Fargo e Legion per la rete via cavo FX, conferma quanto l’autore possieda un occhio assolutamente non scontato quando si tratta di raccontare psicologie fragili e complesse. Lucy in the Sky mette in scena il dramma di un’astronauta che dopo essere stata nello spazio non riesce più a trovare un vero significato alla sua vita comune, sprofondando sempre più dentro un senso di insoddisfazione che la spinge verso la paranoia psicotica. Hawley mette in scena la vicenda di Lucy Cola offrendo costantemente allo spettatore una visione appena distorta della realtà, costringendolo dentro un senso di precarietà e stonatura tangibili. Il suo film ha il pregio notevole di disturbare senza essere necessariamente disturbante, poiché quella che Hawley mostra è la nostra realtà, appena graffiata dal malessere della protagonista del film. E allo stesso tempo dietro una confezione esteticamente variegata possiamo comunque percepire lo straniamento di Lucy, il suo equilibrio che giorno dopo giorno si incrina. Forma e contenuto si fondono in un’opera senza dubbio complessa da gestire emotivamente, eppure a tratti davvero ipnotica. Ottima Natalie Portman nel ruolo principale, molto efficaci Jon Hamm e Dan Stevens nel rappresentare le due figure maschili antitetiche tra cui la donna è divisa. Zazie Beetz avrebbe invece meritato un ruolo più definito invece che quello di un semplice oggetto della contesa. Il talento dell’attrice è indiscutibile, non deve essere sprecato.
Girato in soli quattro giorni e mezzo, American Son rappresenta l’adattamento cinematografico dell’omonima pièce teatrale portata a Broadway dall’intero cast che ha poi realizzato il progetto per Netflix. In una notte interminabile dentro la sala d’attesa di una centrale di polizia una donna afroamericana aspetta di avere notizie riguardo suo figlio, fermato da un agente di polizia mentre era alla guida della sua auto. Il ragazzo è il prodotto di una coppia interrazziale, e quando anche il padre si presenta per cercare di scoprire cosa è successo, ecco che ogni tensione latente dovuta alla differenza del colore della pelle esplode in un dramma che parla della società americana come pochi hanno avuto il coraggio di fare da molto tempo a questa parte. Teatro filmato, certo, quello di American Son. Ma con un senso del ritmo e un’attenzione alla composizione dell’immagine assolutamente cinematografici. Il testo di partenza è uno studio tagliente e purtroppo accurato sulla differenza di percezione di cosa significhi essere nero ancora oggi in America. Ed è una dissertazione ancora più profonda sul cosa sia il razzismo oggi, su quanto sia radicato nella mente collettiva. American Son mette in scena con tragica verità il fatto che senso comune e senso civile non sono la stessa cosa, anzi possono cozzare in maniera feroce. Diretto da Kenny Leon, American Son è interpretato da una portentosa Kerry Washington, insieme a Steven Pasquale, Jeremy Jordan ed Eugene Lee.
Ispirato dal più grosso scandalo della storia dei licei americani – scoppiato nel 2002 - Bad Education di Cory Finley racconta di come il sovrintendente del liceo Roslyn (Long Island) Frank Tassone e la sua assistente Pam Gluckin rubarono più di 11 milioni di dollari destinati ai fondi della scuola. In un interessante equilibrio tra commedia acidissima e dramma realistico, il film possiede una marcia in più soprattutto grazie alla notevole performance dei due protagonisti Hugh Jackman e Allison Janney, i quali sfruttano al meglio personaggi in chiaroscuro e una sceneggiatura capace di ribaltare a poco a poco i ruoli e le parti in gioco con sufficiente pazienza. Bad Education risulta in questo modo un film curioso sa seguire, intrigante nello sviluppo narrativo a che se forse fin troppo trattenuto nella messa in scena, volutamente scarna. Un buon esempio di cinema capace di lavorare sui toni del genere e presentare figure accattivanti pur in tutta la loro meschinità.