Toronto Film Festival 2017: convincono Battle of the Sexes e First They Killed My Father di Angelina Jolie
Tra le interpretazioni di spicco merita segnalazione un grande Gary Oldman in The Darkest Hour
Tra migliori film visti nella parte centrale del Toronto Film Festival 2017 bisogna annoverare Battle of the Sexes di Valerie Farris e Jonathan Dayton, racconto cinematografico dell’incontro di tennis che nel 1973 vide affrontarsi Billie Jean King e Bobby Riggs, trasformandosi in un evento di portata epocale per la lotta all’emancipazione femminile. In realtà il film mette in scena soprattutto il percorso di scoperta sessuale e presa di coscienza della leggendaria tennista. Emma Stone è perfetta e commovente nel darle corpo e voce, in una performance che meriterebbe senza il minimo dubbio di essere nuovamente candidata all’Oscar. Così come lo merita la “spalla” Steve Carell nei panni di Riggs, ormai impressionante nel lasciar trasparire la malinconia dei suoi personaggi dietro la superficie più comica e gradassa. La sceneggiatura di Simon Beaufoy è il terzo grande punto di forza di Battle of the Sexes, un meccanismo a orologeria raffinato nell’esprimere la vita interiore della King. A conti fatti questo potrebbe essere il film “mainstream” migliore visto per il momento alla kermesse canadese.
First They Killed My Father dimostra che Angelina Jolie dietro la macchina da presa sta percorrendo la strada giusta. Aiutata dalla fotografia di Anthony Dod Mantle la cineasta mette in scena con eleganza ma senza alcuna sottolineatura ridondante la vicenda della scrittrice Luong Ung, vittima con tutta la sua famiglia della deportazione da parte dei Khmer Rossi all’epoca dei campi di lavoro in Cambogia. La progressione narrativa che scandisce la dolorosa maturazione della piccola protagonista è delineata con lucidità, e il film ne segue lo sviluppo terribile diventando sempre più scuro e violento, senza però scadere mai nell’esposizione gratuita dell’atto o nell’uso nocivo della retorica. Certo, non si tratta di un’opera che concede al pubblico molte alternative se non quella di soffrire e testimoniare l’orrore insieme a Luong, ma la via che segue anche se impervia è salda e ben raccontata.
Raccontare la cosiddetta “white trash” Americana con freschezza e vitalità, soprattutto senza la retorica del dolore e del degrado esibiti a tutti i costi, è l’intento che Dean Baker si è prefisso con il suo nuovo The Florida Project, interpretato da Willem Dafoe e un cast di attori sconosciuti. Soprattutto nella prima parte il film è scanzonato e divertentissimo, onesto nell’abbracciare questo sottobosco umano ai margini della società. Il tutto viene filtrato dagli occhi crudeli e giocosi di Moonee, una bambina la cui vitalità anche feroce è contagiosa. E’ lei l’anima di un film umano, che anche soffrendo di qualche rallentamento nel ritmo non cede mai a livello emotivo, e conferma la visione potente del suo autore dopo l’esordio notevole di Tangerine.
L’idea di messa in scena sfrontata di I, Tonya non nasconde un problema di ritmo nella seconda parte, molto più rallentato rispetto la narrazione sfrenata e spassosa della prima. L’idea alla base del film è la carta vincente dell’operazione in quanto vuole sbugiardare il perbenismo americano (e internazionale) che condannò la Harding senza conoscere il contesto in cui i fatti reali avvennero. Non che il regista Craig Gillespie la ritragga come un’eroina ingiustamente condannata, tutt’altro. Ma la rappresentazione del “white trash” da cui la Harding è cresciuta è uno schiaffo in faccia alla cultura americana, alla sua mancanza di equilibrio nel giudizio troppo speso bigotto. Un film fresco e velenoso, perfettamente interpretato da Margot Robbie e una grande Allison Janney a supporto.
Con il suo Frankenstein Mary Shelley è stata una delle più importanti innovatrici nella storia della letteratura. Il biopic a lei dedicato non è purtroppo all’altezza di tale genio poiché sceglie la via della convenzionalità cinematografica invece di focalizzarsi sulla creazione del testo e ciò che comportò per la scrittrice. Il film diretto da Haifaa Al-Mansour invece viene impostato su un’impalcatura narrativa che rappresenta la Shelley nelle sue disavventure amorose e negli scandali che ne susseguirono, rendendola in nulla diversa da tanti personaggi femminili messi in scena in questo tipo di produzioni in costume. Tutta la forza innovativa della donna e dei personaggi che inserì nel suo capolavoro vengono diluite in una prima parte prolissa e retorica, che di certo non aiuta la protagonista Elle Fanning e molti dei comprimari ad esprimere le proprie qualità di interpreti. Alla fine più della Shelley rimane maggiormente impresso Stephen Dillane nei panni del padre. Un’occasione mancata soprattutto perché quando alla fine il film racconta della creazione di Frankenstein, ecco che si scorge cosa avrebbe potuto essere e invece non è….
In mano a un regista meno votato allo stile rispetto a Joe Wright The Darkest Hour sarebbe stato molto più efficace a livello emotivo. Il regista invece a forza di cercare la bellezza dell’inquadratura fine a sé stessa o il taglio di luce espressionista si dimentica di seguire i personaggi e la Storia, quella con la S maiuscola. Ecco allora che un comunque enorme Gary Oldman nei panni di Winston Churchill non risulta una figura così emozionante come avrebbe potuto essere, nonostante la prova mimetica straordinaria dell’attore. The Darkest Hour rimane un’opera elegante da guardare, confezionata con cura fin troppo estrema, eppure il dramma della Seconda Guerra Mondiale e soprattutto delle scelte che Winston Churchill dovette fare per poi vincerla non si fanno prepotenti come avrebbero meritato.
Non sbagliato ma simile a molti altri film già visti in precedenza si è rivelato I Kill Giants di Walter Anders, storia di una bambina che per sfuggire al dolore della vita reale si rinchiude in un mondo fantastico popolato di esseri minacciosi. Il tono del racconto e la messa in scena sono leggermente più “sporchi” e disperati rispetto alla pulizia di questo tipo di racconti, ma la sceneggiatura davvero non riesce a liberarsi di un’impostazione e di uno sviluppo drammatico troppo abusati, finendo per non incidere sull’emotività del pubblico. Nel cast Imogen poots e Zoe Saldana.
Una solidissima Emma Thompson e il sempre elegante contrappunto di Stanley Tucci sono il tocco in più di The Children Act, sceneggiato da Ian McEwan che lo ha tratto dal suo romanzo. Personaggi descritti con finissima attenzione alla psicologia, dilaniati da emozioni trattenute o addirittura represse, solo al centro di una storia in cui il ribaltamento delle prospettive come sempre in McEwan serve per mostrare il lato oscuro dell’animo umano. Richard Eyre ha diretto il tutto con mano sicura anche se forse leggermente troppo trattenuta, risultando a tratti freddo soprattutto nello sfruttare gli interni. Il film rimane comunque molto efficace grazie alle performance dei due consolidati attori. Da vedere senz’altro.