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The Whale: tra la Bibbia e Moby Dick si aprono gli abissi del sentimento umano

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Altro che buonista, altro che esagerato: quello di Darren Aronofsky è un grande film, con grandi interpretazioni, capace di una delicatezza d'animo quasi inaspettata per un regista che non è mai andato troppo per il sottile. The Whale è da oggi al cinema con I Wonder Pictures.

The Whale: tra la Bibbia e Moby Dick si aprono gli abissi del sentimento umano

Non è uno che sia andato mai troppo per il sottile, Darren Aronofsky. Al contrario, il suo è sempre stato un cinema d’assalto, in un certo senso. Intelligente, sì. A modo suo perfino elegante. Ma uno che lo spettatore lo prendeva per il bavero e lo sbatteva di qui e di lì a vedere cose non sempre comodissime, o gradevolissime.
L’uno-due degli esordi, in questo senso, è stato micidiale: prima, nel 1998, Pi - Il teorema del delirio (che già dal titolo, insomma, lascia intuire), e poi, nel 2000, Requiem for a Dream, di cui ancora, da allora, unica visione, mi porto appresso il senso di scomodità e turbamento che ti gettava addosso.
Se poi è vero che le sue ambizioni - filosofiche, verrebbe da dire - sono cresciute di pari passo con l’elaborazione delle costruzioni cinematografiche, è innegabile che, piacciano o meno, film come Il cigno nero, o Madre! si facciano notare per il loro minimalismo.
Perfino The Wrestler, che pure è in fondo una storia gemella  - un contro canto - rispetto a quella che Aronofsky racconta adesso, in The Whale, è un film che, appunto, ha la spettacolarità sentimentale e esagerata dello sport, se così possiamo dire, che pratica il suo protagonista.
Ecco che, invece, con The Whale qualcosa è cambiato. Non sarà minimalista nemmeno questo film qui, ma Aronofsky dimostra un affetto per il suo protagonista, una vera e propria pietas cristiana, che l’ha spinto evidentemente a cambiare certi toni, e a procedere in maniera diversa. Col risultato, altrettanto evidente, di farci provare gli stessi sentimenti a noi, nei confronti di quel protagonista.
Ammettiamolo: non era facilissimo.

Charlie è un grande obeso. E sta, con tutta evidenza, per morire. Nel cibo, nella compulsione per il cibo, ha trovato un sollievo ai dolori della sua vita: su tutti, la morte dell’amore della sua vita, l’uomo per cui aveva lasciato una moglie e una figlia che non l’hanno perdonato.
O forse, nel cibo, Charlie ha trovato il modo per punirsi per i suoi peccati, per fustigarsi. Per avvicinarsi alla morte, appunto.
Charlie, ai suoi studenti di scrittura creativa via Zoom, insegna a inseguire la verità che sta nelle cose, e nelle parole. Una verità che dovrà inseguire anche lui di fronte all’ultima chance che ha di mettere a posto almeno un po’ di cose, di ricostruire il rapporto con una figlia diventata intrattabile adolescente, e di lasciarle di sé un ricordo che non sia solo doloroso, o disgustoso.
Perché Charlie è terribilemente consapevole cosciente di ciò che ha fatto, di ciò che può suscitare nel prossimo, di quel che sarà il suo destono: di tutto ciò che Aronofsky ci mostra e ci racconta.
E quanto la comprendiamo, noialtri spettatori in sala, la frustrazione di Liz, che di Charlie è l’infermiera, e l’unica amica. Comprendiamo perfino la sua incazzatura, e quella della figlia Ellie, e pure quella certa condiscendenza, o quel certo disagio di quei pochi che, in questo film almeno scenograficamente sì, minimalista, posano i loro occhi sul corpo di Charlie.

Aronofsky si era innamorato a prima vista, letteralmente, del testo teatrale di Samuel D. Hunter. E ha Hunter, zero esperienza cinematografica alle spalle, ha chiesto di scrivere il copione del film, perché voleva che tutto quello che era sul palco tornasse anche sullo schermo.
Nel casting c'è del genio, va ammesso: circondandolo di comprimari di gran classe (ci sono Sadie Sink nel ruolo della figlia, Samantha Morton in quello della ex moglie, una straordinaria Hong Chau in quelli dell’amica Liz), Aronofsky ha voluto nel ruolo di Charlie Brendan Fraser: uno sbucato dal passato, se mi passate la citazione; uno che così su due piedi pensi davvero non c’entri nulla, con un personaggio del genere, ma che invece è stato perfetto, capace di trasmettere, praticamente solo con le espressioni del viso, e degli occhi, un dolore e delle ferite che, evidentemente, sono anche sue, personali, parte di una storia privata che è bene rimanga tale.
Aronofsky, che abbiamo detto essere il regista che è, non ci risparmia i colpi bassi, ma mostrando sullo schermo senza ipocrisie gli eccessi e le degradazioni che Charlie di infligge mentre è rinchiuso in casa sua, prigioniero del suo divano e dell'inquadratura in 4:3, ne mette a nudo i tormenti dell’anima. In maniera coinvolgente, commovente, a tratti francamente straziante.
Perché Aronofsky, anche nei momenti più disperati e terribili, coglie sempre quella sincerità implorata da Charlie ai suoi studenti, e quella verità semplice e ineludibile che sta nel tema di una bambina. Anche se poi, e non poteva essere altrimenti, per uno come lui, tutto in The Whale è compreso tra la Bibbia e “Moby Dick”, tra il Leviatano e la Balena bianca.
Come tutta la storia americana, in fondo.

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  • Programmatore di festival
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