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Quell’estate con Irène che cambia la vita di due ragazze: incontro con Carlo Sironi da Berlino

Presentato nella sezione Generation al Festival di Berlino, Quell’estate con Irène è il ritratto di due ragazze che fuggono in un’isola nel caldo estivo in cerca di libertà. Abbiamo incontrato il regista Carlo Sironi, all’opera seconda dopo Sole, presentato a Venezia.

Quell’estate con Irène che cambia la vita di due ragazze: incontro con Carlo Sironi da Berlino

Due ragazze, in estate, che fuggono dai problemi della loro quotidianità per vivere giorni di libertà. Un immaginario caro al cinema che Carlo Sironi ripropone in Quell’estate con Irène, presentato al Festival di Berlino nella sezione Generation. Siamo alla fine degli anni ’90, Clara e Irène si incontrano per la prima volta durante una gita organizzata dall’ospedale che le ha in cura. Timida e solitaria l’una, sfacciata e inarrestabile l’altra, in comune hanno soltanto i loro 17 anni e quella malattia che sembrava sconfitta ma è ancora un’ombra presente nelle loro vite.

Abbiamo incontrato Sironi, con cui abbiamo parlato del punto di partenza nel raccontare questa storia. “Non è un racconto poeticizzato se dico che è nato ascoltando una canzone dei Cure, To Wish Impossible Things. Per quattro minuti e mezzo ho visto molti degli elementi poi rimasti nel film dopo il percorso di scrittura. Un film che mi è arrivato come un dono, più che seguito alla volontà di affrontare un tema o un momento. È stato un lavoro di decodifica. Quando mi sono appuntato le cose che mi ero immaginato durante quella canzone, sentivo da un lato il racconto di due ragazze che affrontavano l’ombra della malattia, che non conoscevo e richiedeva un percorso di ricerca, e  dall’altra la loro capacità di intessere legami in maniera così repentina e ad alta voce mi ricordava tantissimo alcune mie amiche del liceo, con cui al tempo avevo un rapporto molto forte. 

Un momento che rappresenta un vero rito di passaggio, quello delle vacanze di fine adolescenza.

Sono momenti che, volenti o nolenti, rimangono impressi nella memoria come primigeni. Quella prima estate in seguito la paragoneremo sempre alle altre. È stato per me molto importante riguardare le riprese in digitale che avevo fatto nella mia estate, in quel caso su un isola croata. Per la prima volta avevamo una telecamera, non un video8 come nel film perché sono più giovane. Ricordavo benissimo quei filmati. Una telecamera era un oggetto raro, o almeno non comune, aveva l’unica finalità di rivedere poi le immagini come home movies. Faceva sì che ci comportassimo tutti in maniera più infantile, mentre oggi con i cellulari vedo una tendenza dei ragazzi che li usano come strumento per dimostrarsi più adulti. C’è questo ribaltamento in Quell’estate con Irène, con loro che ritornano infantili.

Quei giorni estivi rimangono una bolla, con un loro ritmo speciale, vivendo qualcosa che già si sa sarà un ricordo per tutta la vita. 

Assolutamente così. Ho subito deciso di non ambientare la storia in epoca contemporanea. La ragione più importante è che mi ricordo come eravamo, ma non so come sono le ragazze adesso, non mi volevo arrogare la presunzione di saperlo. Dall’altra sicuramente per la possibilità di tagliarsi fuori dal mondo del passato, che anche a chi come noi l’ha vissuta sembra già esotica. Un elemento che dava ulteriore forza alla loro possibilità di fuga. Mi ricordo che nel 1998 anche un ragazzo che voleva sparire riusciva a farlo. Non scappano sulla costa ma su un’isola, il luogo in cui per antonomasia in cui ci si lascia tutto alle spalle, pur rimanendo allo stesso tempo chiusi in uno spazio ristretto.

Come hai immaginato il percorso di avvicinamento fra queste due ragazze? Sono molto diverse, una è straniera, hanno in comune l’aver vissuto una malattia che sperano di essersi lasciata alle spalle.

L’idea che fossero molto diverse, ma con un enorme facilità a legarsi, l’ho avuta fin da subito. Il personaggio di Irène è il primo che ho delineato bene. Ero a Parigi per una residenza di scrittura quando lavoravo a Sole, che ho scritto in parte lì e al cinema ho visto Ava, in cui Noée Abita recitava per la prima volta. Ero rimasto molto colpito dal film, ma soprattutto da lei, mi dicevo che sarebbe diventata un’attrice incredibile. Nel momento in cui abbiamo cominciato a pensare al film, che ho scritto insieme a Silvana Tamma, abbiamo pensato a un personaggio che avesse un’enorme forza di leggerezza, un’onda euforica, ma con un lato privato molto profondo e pudico. Un bilanciamento di questi due elementi. Ho pensato subito a Noée e per un mesetto mi sono detto che dovevamo trovare qualcuno come lei. Poi glielo abbiamo chiesto direttamente, ha accettato e ha imparato l’italiano per il film. Insieme abbiamo cercato una ragazza con una temperatura emotiva molto diversa e abbiamo incontrato Camilla Brandenburg. L’avvicinamento fra le due è stato studiato la vorando direttamente con le attrici, un anno prima delle riprese. Come con Sole, ho bisogno di iniziare il casting prima, anche per scrivere il film per chi lo interpreterà.

Poi c’è un elemento vampiresco su cui insisti più volte. Vanno in un’isola per nutrirsi dell’energia del sole, eppure non possono troppo esporsi e vivono soprattutto la notte.

Sono fissato con i vampiri in maniera ormai patologica. Da ragazzo ho letto tutto quello che si poteva sull’argomento. Nelle ricerche ho visto delle foto di alcune ragazze in una metropolitana con i denti da vampire che sorridevano. Mi sono detto che risuonava con il film e ho pensato di usarlo come elemento di gioco, ma anche legato all’immortalità dei vampiri, che ci fa sempre risuonare l’eccezionalità della nostra mortalità

Il film ha pochi dialoghi e molte camminate in cui i personaggi sembrano cercare i loro spazi.

C’erano in sceneggiatura alcuni dialoghi in più, poi al montaggio l’abbiamo reso più sospeso. Ma c’è una cosa importante che non si fa spesso, semplicemente seguire le persone nello spazio. Mentre Sole aveva una fissità legata alla situazione emotiva, qui ho cercato di usare uno strumento straordinario che è un po’ passato di moda nella sua essenzialità come la panoramica, su cui tutto sommato il cinema ha creato il suo linguaggio. In un film di scoperta mi sembrava interessante raccontare con quel linguaggio, che è molto semplice e rimanda agli anni ’60 e ’70. Le nostre guide sono stati i film di Maurice Pialat e ovviamente Eric Rohmer, come d’obbligo morale quando si parla d’estate. Quel momento in cui l’uomo e la natura si fondono insieme in un rapporto un po’ mitologico, in cui diventiamo forti come il luogo in cui ci troviamo, ma allo stesso tempo ne siamo preda, come quando arriva la pioggia

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