Promised Land: recensione del viaggio sulle tracce di Elvis Presley e dell'America profonda visto a Cannes 2017
Un documentario pieno di stimoli diretto da Eugene Jarecki.
Un viaggio nell’America di Elvis Presley con una delle sue macchine, riconvertite per l’occasione. È questa la premessa del documentario di Eugene Jarecki, presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2017. In occasione delle ultime battute della campagna presidenziale che ha portato al potere Donald Trump, il cineasta ripercorre l’immaginario di una delle figure centrali della storia americana della seconda metà del secolo scorso; specie in quei luoghi, fra sud e midwest, che hanno deciso le elezioni. Un ragazzino di un paesino sperduto del Mississippi che diventerà The King, proprio mentre, è questa la tesi del regista, gli Stati Uniti ampliavano le loro ambizioni mondiali, diventando Impero, non più Repubblica.
Un bianco che non aveva paura di sembrare un nero, nelle movenze, nel modo di cantare e, con orrore di molti, nel sessualizzare il proprio rapporto con musica e ballo. Per molti neri fu un puro e semplice impostore, come risulta da alcuni degli incontri di Jarecki, che fa salire sulla Rolls Royce del 1963 molte persone che con Presley hanno avuto a che fare, o che lo ritengono un punto di riferimento, nel bene o nel male. Volti noti, o sconosciuti, da Memphis a Las Vegas a New York, inseguendo un simbolo del bravo ragazzo dei dorati, e irregimentati, anni 50. Soldato per la patria, ambasciatore dei valori, ma anche della spinta espansiva culturale e politica del suo paese in tutto il mondo.
Jarecki poi analizza un dualismo fra i due King del sud musicale, con al centro Memphis. Da una parte Presley e dall’altra Martin Luther King, che la musicalità la declinava nei suoi straordinari discorsi pubblici che sembravano delle prediche religiose, e viceversa. Un cocco del sistema di potere dell’America dello sviluppo delle periferie residenziali tutte uguali, quella raccontata in Happy Days e guidata dal presidente Eisenhower, del miracolo americano la cui morte fu dichiarata proprio in quel 1968 in cui morì, dopo il secondo Kennedy, Robert, proprio il reverendo King. Anche Presley si allontanò dal ruolo di paladino ufficiale dell’american dream, per morire a soli 42 anni.
Nel periodo della fine della stabilità e della dignità della presidenza Obama, con i suoi alti e bassi, Jarecki individua un sempe più diffuso disagio sociale e politico, nonostante la (quasi) piena occupazione negli Stati Uniti di oggi. La nostalgia di un’epoca d’orata, o presunta tale, si è impossessata sempre più di chi ha perso radici sociali e spesso si è dovuto riconvertire professionalmente, perdendo potere d’acquisto. Un viaggio pieno di musica e rimpianti, in cui Elvis Presley è un pretesto per un'avventura empatica nelle pieghe dell'America che ha subito il passaggio degli anni, vittima darwiniana di un Impero che sempre più ha abbandonato la pancia periferica del Paese per consolidarsi nelle due coste e nelle capitali della finanza.