Festival di Cannes 2008 - a proposito di INDIANA JONES
Clima da stadio a Cannes per la presentazione di Indiana Jones e il Regno del teschio di cristallo, l’attesissimo quarto (e conclusivo?) capitolo delle avventure dell’archeologo interpretato da Harrison Ford. Tanta attesa però è stata in gran parte delusa da un film baraccone che strizza l’occhio più all’audience giovanile che alla gen...
Festival di Cannes 2008: a proposito di Indiana Jones
The Times They are A-Changin’, canta(va) il geniale menestrello Bob Dylan. Ed I tempi cambiano eccome, anche per Indiana Jones.
Perché il quarto, attesissimo film con protagonista il celebre archeologo-avventuriero, dimostra come a distanza di quasi vent’anni dal capitolo precedente Spielberg e Lucas abbiano deciso di modificare sostanzialmente il taglio delle storie di Indy.
Non ci soffermiamo troppo sulla trama, per non spoilerare troppo: basti dire che siamo nel 1957, che all’inizio del film Indiana Jones viene costretto da un gruppo di sovietici ad identificare una cassa misteriosa in un enorme magazzino governativo situato all’interno dell’Area 51 (che scopriremo essere lo stesso che custodisce l’Arca dell’Alleanza), che il nostro eroe – assieme ad un nuovo personaggio, Mutt, interpretato da Shia LaBeouf – finirà in America del Sud alla ricerca della leggendaria città di Eldorado e che lì s’imbatterà negli stessi russi di cui sopra e nella rediviva Marion Ravenwood.
Fin dall’inizio è chiaro che Spielberg e Lucas han cercato una soluzione compromissoria che potesse conquistare le nuove generazioni più giovani (non particolarmente legate alla trilogia originaria, se non completamente ignare) ma al tempo stesso soddisfare i fan della serie.
Da un lato quindi il film gioca su registri eccessivi e baracconeschi che lo fanno assomigliare ad un grande ed artificioso parco dei divertimenti su pellicola che non ad un film di Spielberg: i riferimenti e l’immaginario sembrano di chiara derivazione fumettistica, gli effetti speciali sono molti ma mai improntati al realismo, giocando anzi spesso con la loro palese natura sintetica; l’azione si fa esagerata e parossistica, e anche l’umorismo si discosta spesso da quello ironico dei film originali.
Dall’altro il film strizza spesso l’occhio a chi con i film di Indiana Jones è magari cresciuto, disseminando nel corso della narrazione tanti piccoli riferimenti e soprattutto costruendo il rinato rapporto tra Indy e Marion (e anche con nuovo arrivo Mutt) con grande attenzione filologica, riprendendo in quel caso i toni che molti di noi hanno amato ne I predatori dell’arca perduta.
Quasi un paradosso, visto che solitamente proprio questo genere di in-jokes e di riferimenti al passato rischiano di essere le cose più fastiose ed autocelebrative di una serie cinematografica: qui invece sono le cose che funzionano di più. Forse le uniche.
Colpa di una sceneggiatura che si è allontanata dalle atmosfere della trilogia degli anni Ottanta, che trasforma il viaggio di Indy e compagni in una sorta di corsa sulle montagne russe esagerata ed irrealistica: alla polvere e le esplorazioni avventurose (magari irrealistiche) dei primi film, in Indiana Jones e il Regno del teschio di cristallo si sono sostituite scene d’azione plastificate, e anche l’oggetto al centro della ricerca dei protagonisti è tanto esagerato da non riuscire ad affascinare lo spettatore.
Tra le altre cose è da dimenticare l’entrata in scena di Shia LaBeouf conciato come Marlon Brando ne Il selvaggio, ma alcuni sguardi e scambi di battute tra Indy e Marion ripagano forse a sufficienza per compensare quello che spesso non appare tanto un’opera spielberghiana quanto una baracconata alla Gore Verbinski, seppur a tratti divertente.