Volveréis, intervista a Jonas Trueba tra Fellini, Truffaut e Ricomincio da capo: "Il cinema è la vita, ma più intensa"
È una storia che "lavora su una confusione emotiva, sull’amore, sul cinema, sulla vita", dice il regista Jonas Trueba del film ottavo film Volveréis.

Lei è una regista, lui un attore. entrambi lavorano nel mondo del cinema e, mentre portano avanti la realizzazione di un film a cui stanno lavorando, decidono di pianificare la festa per la loro separazione. Sì, sono una coppia da 15 anni e di comune accordo decidono di separarsi, senza traumi né tragedie, per celebrare il tempo trascorso insieme. Dirlo a parenti, amici, colleghi non è facile, sono in pochi a comprendere come si possa festeggiare quella che sembra una cattiva notizia.
Questa è storia che racconta il film spagnolo Volveréis (nei cinema italiani dal 12 giugno), diretto da Jonás Trueba e da lui scritto insieme ai due attori protagonisti Itsaso Arana e Vito Sanz che interpretano, rispettivamente, Ale e Alex. Figlio del noto filmmaker Fernando Trueba, il 41enne Jonás ha sviluppato nell'arco del tempo un proprio stile narrativo, che spesso tocca i temi dell'amore, dell'amicizia e della separazione. Il suo modo di ritrarre la vita quotidiana mostra una non comune sensibilità artistica, in cui poesia ed emozioni vengono espresse con piccoli gesti e attenzioni. In occasione della 18ª edizione del La Nueva Ola – Festival del Cinema Spagnolo e Latinoamericano, abbiamo avuto la possibilità di scambiare due chiacchiere con Jonás Trueba.
Jonas, hai 15 anni di carriera alle spalle. Sarebbe stato possibile realizzare questo film prima?
No, credo che sia un film che non avrei saputo fare dieci anni fa. È il mio ottavo film. È il mio personale 8 1/2, ma alla nostra maniera, senza il genio di Federico Fellini e realizzato su scala più piccola.
Il film racconta di una sorta di "crisi" di coppia che si riflette sul fronte professionale. I personaggi, peraltro, sono filmmaker. C'è qualcosa di autobiografico?
Probabilmente sì. È un film di crisi: con noi stessi, con il cinema, con il nostro momento vitale. In un certo senso chiude un ciclo, o forse rappresenta una svolta, un prima e un dopo. C’è dell’autoironia, una parodia leggera anche della nostra crisi. È un film che raccoglie tanto del percorso fatto in più di dieci anni di lavoro collettivo con gli stessi tecnici e attori.
Il rapporto tra i personaggi fiorisce in modo molto naturale. Si direbbe un flusso di coscienza...
È un lavoro di fiducia costruito nel tempo. Abbiamo sempre lavorato partendo da noi stessi, come se fossimo potenziali personaggi di finzione. C'è un processo aperto, costante, in cui la sceneggiatura evolve e il set resta vivo, mai rigido. Truffaut diceva che bisogna girare contro la sceneggiatura. Anche noi pensiamo che bisogna montare contro il girato, cambiare idea in corsa, restare vivi. Credo che quella fluidità che percepisci sia il frutto del nostro modo di lavorare insieme. È qualcosa che si riflette naturalmente nel film.
Parliamo di ripetizione. È un elemento chiave del film. La coppia continua a ripetere a tutte le persone che incontra che è in fase di separazione. Questa dinamica mi ha ricordato il film Groundhog Day (Ricomincio da capo).
Grazie per dirmi questo, quel film è una delle opere che maggiormente mi hanno influenzato da giovane. L’ho visto tantissime volte e mi emoziona ancora oggi. La ripetizione nella vita quotidiana è centrale: nulla si ripete davvero allo stesso modo. C’è sempre una variazione, ed è questo che ho voluto mostrare. La ripetizione può diventare linguaggio cinematografico, proprio come nel libro di Kierkegaard che appare nel film, in cui si parla della ripetizione come esperienza esistenziale.
Quanto lavori con gli attori per ottenere questa naturalezza?
Lavoriamo molto. Anche se tutto sembra spontaneo, c’è una grande precisione dietro: nei dialoghi, nei movimenti, nel ritmo. Il montaggio poi diventa fondamentale per chiudere il cerchio.
Il film ha un finale aperto. Come reagisce il pubblico solitamente?
In modi diversi. Alcuni spettatori lo trovano triste, altri allegro. Per me è entrambe le cose. Il film lavora su una confusione emotiva, sull’amore, sul cinema, sulla vita.
Perché fai cinema? Cosa rappresenta per te?
Per me il cinema è vita, ma più intensa. È un modo di essere al mondo. Anche senza una macchina da presa, io penso in modo cinematografico. Ogni cosa può essere cinema. Anche questa conversazione.
Qui sotto il trailer di Volveréis.