Troppo amici - intervista ai registi Eric Toledano e Olivier Nakache
I registi di Quasi Amici ci parlano della loro commedia Troppo amici, in usicta sui nostri schermi il 6 dicembre
Eric Toledano e Olivier Nakache, registi di Quasi Amici, ci parlano della loro commedia Troppo amici, in uscita sui nostri schermi il 6 dicembre:
Com’è nata l’idea di “Troppo amici”?
Eric Toledano: «La famiglia è uno dei temi che ci ha sempre affascinato. Rappresenta uno spaccato della realtà di ognuno di noi. Passiamo la vita a cercare di staccarci dalla famiglia, ma allo stesso tempo non possiamo farne a meno tanta è l’influenza che esercita su di noi. E’ alla base della nostra vita, anche se piena di paradossi. Per alcuni è il solo rifugio possibile, per altri una specie di prigione soffocante. Una volta ho letto una definizione di famiglia che spiega bene questo dualismo: “Vivere insieme ci uccide, separarci è mortale”. Anche se la famiglia in questione non è la nostra, comunque rappresenta bene la famiglia moderna. I nostri film precedenti si basavano sulle esperienze passate, questo invece incarna i nostri pensieri sul presente».
Olivier Nakache: «Il soggetto di “Troppo Amici” ci è venuto naturale, come un’espressione dei pensieri che avevamo in comune e quelli opposti sulla famiglia. O meglio, sulle famiglie, sia quelle “di sangue” che quelle “acquisite”, come quelle culturali o religiose».
Avete tratto ispirazione dalle vostre vere famiglie per scrivere questo film?
ON: «Mah, si e no. Con Eric siamo partiti senz’altro dai nostri aneddoti familiari, di solito è così che nascono i nostri soggetti. E siccome entrambi proveniamo da famiglie numerose e molto “colorate”, col passare delle settimane ne abbiamo raccolti moltissimi. E’ chiaro che poi abbiamo dovuto esagerare ed esasperare alcune situazioni per renderle realistiche ma allo stesso tempo strane, e spero anche emozionanti. Comunque ci siamo affidati a un consulente familiare, per poter arricchire la storia».
ET: «Gli abbiamo chiesto (al terapeuta, ndt) di raccontarci quali siano i conflitti più ricorrenti nelle famiglie che assiste. Per esempio è stato proprio grazie a una seduta con il terapeuta che abbiamo scoperto il concetto di “invasione” di un nucleo familiare da parte della famiglia di origine di uno dei due. E’ una situazione molto frequente che genera tensioni molto profonde, dalla quale abbiamo preso spunto per tracciare alcuni aspetti della vita di Jean-Pierre (François-Xavier Demaison).
La prima parte del film va avanti a un ritmo molto serrato, in cui vengono presentati i personaggi principali della storia. Come vi è venuto in mente di costruire così l’intro della storia?
ON: «Non è mai facile trovare il modo giusto di presentare i protagonisti di una storia, soprattutto se sono tanti. L’espediente giusto è stato usare una voce fuori campo, del tipo “Salve, sono Alain, ecco mia moglie Nathalie, mio cognato Jean-Pierre…”. A questo punto si ferma l’immagine e Alain continua dicendo “Da che mi ricordo, non ho mai conosciuto una famiglia così”. Chiaramente, per cercare di essere il più originali possibili, abbiamo deciso di uscire dai clichè tipici di scene di questo genere e fornire allo spettatore un prodotto il più possibile originale».
ET: «E’ così che è nata l’idea della scena iniziale da Ikea, che in un attimo racconta allo spettatore tutte le problematiche salienti della storia: il ragazzo sovreccitato, la coppia in crisi, la paventata cena a casa del cognato… Abbiamo voluto prendere lo spettatore per mano e accompagnarlo per tutto il film».
Perché l’ambientazione proprio a Choux de Creteil?
ON: «Sia io che Olivier siamo originari di Choux de Creteil, ci andiamo spesso a trovare le nostre famiglie. Dal punto di vista architettonico, è un posto fuori dal mondo. Sembra di essere su Marte, un posto slegato dal resto dell’universo, perso in un’altra dimensione. Alain ha caldo, fuma, si sente oppresso, vuole scappare via. La tensione sale, sale, sale… e a un certo punto… boom!».
Quanto tempo ha richiesto la stesura di una sceneggiatura così complessa?
ON: «Circa due anni. La prima stesura ci è costata sei mesi di lavoro. Alcuni autori-registi sono scrittori più esperti che sanno perfettamente come sceneggiare i loro film. Noi siamo del tutto diversi. Siamo alla ricerca continua dell’espediente in più, del valore aggiunto, di una idea nuova, dovunque provenga».
ET: «Anche se siamo molto rigorosi nel processo di scrittura, una scena non prende mai vita del tutto fintanto che non sono stati scelti gli attori ed è stata fatta un’ultima stesura del copione. A volte la scena si completa direttamente durante le riprese, con battute che escono fuori così, di getto. Potremmo paragonare questo processo a una musica molto ricercata. Al cinema, soprattutto quando si tratta di commedie, un sguardo, un respiro, una parola, una espressione, possono fare la differenza. E’ la continua ricerca della nota mancante che caratterizza il nostro lavoro, il processo di scrittura a volte si estende anche alla fase di montaggio, al missaggio. Abbiamo fatto lo stesso con “Those Happy Days” e il risultato è stato sorprendente, anche per noi stessi. Per esempio, la scena di Roxane e del bambino al supermercato non ci soddisfaceva: è stato solo riguardandola che ci è venuta in mente la battuta “Puoi prestarmi tuo figlio ogni tanto!”. E la scena prende tutto un altro sapore».
Questo vostro modo di lavorare, quanto incide sulle riprese?
ON: «E’ un metodo che spesso destabilizza gli attori e deve essere concordato anche con il direttore della fotografia. Siamo alla seconda collaborazione con Rémy Chevrin, che sa perfettamente come improvvisare con la camera e adattarsi al ritmo degli attori. Ormai lo sanno tutti che all’improvviso possiamo chiedere di rifare una scena che andrà in una direzione totalmente opposta a quella della ripresa precedente. E’ uno dei motivi per cui usiamo molto lo zoom, è una tecnica che ci permette di cambiare prospettiva ogni volta che vogliamo».
ET: «Mentre stavamo girando il nostro primo film, con Gérard Depardieu, alla fine di una scena dissi “E’ buona, rifacciamola”. E lui si stupì, dicendo “Se è buona, perché rifarla?”. Non aveva torto, in realtà. Ma anche se una scena è buona, mi piace rifarla con quel minimo di cambiamenti “fisiologici” che ci consentiranno poi, in fase di montaggio, di avere più materiale per le mani».
ON: «Anche se poi al direttore di produzione viene l’ulcera».
Tre film, tre commedie. Per quale motivo preferite questo genere?
ET: «Abbiamo in ballo la storia di una donna che si suicida una mattina dopo aver preso il caffè, proprio quando è pronto il suo toast… Ma non è il momento giusto, in questo momento abbiamo ancora troppa voglia di ridere e far ridere. In qualunque modo sia possibile far ridere la gente, che si tratti di un riso leggero o più amaro. Per adesso vogliamo continuare così, visto che è già una sfida continua riuscire in questo genere di film».
ON: «Quando esce un nostro film, Eric e io ci divertiamo ad andare in incognito nelle sale cinematografiche per ved