Still Life - Uberto Pasolini presenta il suo film
Il produttore e regista anglo-italiano parla del suo secondo film, in uscita nelle nostre sale
Uscirà in 60 sale il 12 dicembre, distribuito dalla Bim, da sempre votata alla causa del cinema di qualità, Still Life, opera seconda da regista del produttore Uberto Pasolini, premiato – tra gli altri riconoscimenti - per la miglior regia della sezione Orizzonti all'ultima Mostra del Cinema di Venezia e col premio Pasinetti assegnato dai critici cinematografici, che gli è stato consegnato proprio in apertura del suo incontro con la stampa romana. E' davvero un personaggio affascinante questo signore nobile ed ex banchiere (che si definisce più volte un super-privilegiato) che a neanche trent'anni ha abbandonato una carriera di successo per perseguire la sua passione di sempre, il cinema. Gli inizi come assistente sul set di Urla del silenzio di Roland Joffé, poi come produttore I vestiti nuovi dell'imperatore e l'enorme successo di Full Monty, fino all'esordio alla regia con Machan, a cui segue questo piccolo grande film sull'isolamento sociale, raccontato attraverso le vicende di un grigio impiegato inglese (lo straordinario Eddie Marsan), incaricato di rintracciare eventuali parenti che possano presenziare ai funerali o alla cremazione delle persone che muoiono da sole, senza apparenti legami col mondo. Un tema forte ma svolto in modo intelligente e “leggero”, che ricorda a tratti "L'eleganza del riccio", e che nonostante tutto riesce a non deprimere.
Partiamo dal titolo, di cui si intuisce una molteplicità di significati. Risponde Pasolini, che è cittadino italiano ma vive da sempre in Inghilterra: “in inglese significa “vita ferma”, ma anche “ancora vita”, a significare che anche una vita in apparenza chiusa in se stessa è vita e che tutte le vite devono essere valorizzate. Quella del protagonista è anche una “vita di immagini”, e poi in inglese significa “natura morta”. Ma il significato che gli do io è quello di “ancora vita”, perché per me è un film ottimista, sul valore della vita degli altri, e non sulla morte”.
Lo spunto per fare un film su questo particolare lavoro, che il protagonista svolge con molto scrupolo e partecipazione, è venuto all'autore “da un'intervista che ho letto su un quotidiano di Londra a una di queste persone. Mi sono incuriosito e ho cominciato una ricerca, ho contattato l'intervistato che era del Funeral Office di Westminster (ogni distretto cittadino ha il suo incaricato), poi mi sono spostato in zone più disagiate, ho presenziato a funerali e cremazioni dove a volte ero l'unico presente, solo con la bara e il celebrante a ricordare la vita di una persona che non conoscevo se non dalla breve visita che avevo fatto prima alla sua casa. Quello che c'è nel film è vero, io ho poca immaginazione e ho bisogno di rubare alla realtà di tutti i giorni qualcosa di significativo, che mi tocca".
La domanda sulla bocca di tutti è come mai un uomo della sua estrazione si dedichi con tanta passione a fare cinema sulla vita di persone agli antipodi della sua. Risponde con sincerità Pasolini: "Da un po' di tempo il cinema per me è più che altro una scusa di ricerca di realtà sociali molto diverse dalla mia. Io sono cresciuto da stra-privilegiato fin da quando sono nato, e trovo il mio background sociale di nessun interesse. Il processo di ricerca che precede la sceneggiatura è l'occasione di scoprire delle realtà per me aliene, come quella di chi ha perso il lavoro - mio padre mi diceva in proposito che Full Monty era un film tristissimo, e in effetti lo era - un problema che io non ho mai dovuto pormi, visto che avevo delle conoscenze e dunque ero un privilegiato. Ho fatto Machan per capire perché la gente lascia il suo paese, la sua lingua, la sua famiglia, la sua cultura. In questo caso invece ho letto un'intervista e sono stato colpito dall'immagine di un funerale con nessuno presente. Il film è cominciato come un tentativo di capire meglio cosa vuol dire l'isolamento nella società occidentale contemporanea. Io sono divorziato, anche se vedo mia moglie (la compositrice Rachel Portman, ndr) due volte al giorno perché continuiamo a lavorare insieme e vedo le mie figlie tutti i giorni, ma da 5 anni ho delle serate in cui torno a casa e per la prima volta in 30 anni entro in una casa buia, silenziosa, senza presenza umana e questa cosa mi ha colpito. E' diventato anche una scusa per un'analisi personale su cosa vuol dire essere soli. In questo senso è il film più personale che abbia mai fatto".
Parlando dello stile, Pasolini dice: "E' un film sotto volume, a toni bassissimi. Io amo tutto il cinema ma molto spesso mi parla di più il cinema a volume basso: c'è poca musica, la macchina da presa è quasi sempre immobile, con inquadrature simmetriche, la fotografia è desaturata, all'inizio è quasi in bianco e nero. Il cinema che ho guardato di più durante la preparazione del film è quella di Ozu – non che io voglia paragonarmici, lui era immenso e io sono piccolo - per questa sua capacità di colpire profondamante lo spettatore mantenendo il volume basso, raccontando storie di tutti i giorni con una recitazione realistica ma soprattutto molto pacata, molto contenuta. Ho una vaga teoria: è molto facile colpire lo spettatore con una grammatica facile, ma credo che più violenta e più forte è questa grammatica, più aliena è alla nostra vita di tutti i giorni, e si dimentica più facilmente. La nostra vita è sotto tono e i film che ti parlano piano possono - come spero succeda anche al mio – restare con noi più a lungo".