Smetto quando voglio - Masterclass: la banda dei ricercatori presenta il film
il numeroso cast del secondo capitolo della trilogia di Sydney Sibilia parla di azione e di commedia.
Fra commedia all’italiana, fumetto, omaggio al cinema americano nei suoi action-movie e in alcune epiche trilogie anni ‘80, Smetto quando voglio - Masterclass, è il film numero 2 di un trittico cominciato nel 2014 con Smetto quando voglio e che terminerà questo autunno con Smetto quando voglio - Ad Honorem. Protagonista, ancora una volta, è la leggendaria banda dei ricercatori: sette laureati squattrinati che si sono inventati una droga sintetica e si sono mescolati alla malavita con effetti, ahimé, disastrosi (almeno per alcuni di essi). Nella nuova avventura, che si arricchisce di un villain con il volto di Luigi Lo Cascio, di un ispettore di polizia donna impersonato da Greta Scarano e di qualche spassoso cervello in fuga, Pietro Zinni e i suoi compari hanno l’occasione di ripulirsi la fedina penale collaborando con la giustizia. Un’idea brillante, che conferma il talento di sceneggiatore del regista Sydney Sibilia, maestro di cerimonie di un’allegra conferenza stampa a cui ha partecipato l’intero cast. Con toni prevalentemente scherzosi, quasi ognuno ha detto la sua sulle sequenze più movimentate, fra cui spicca un assalto a un treno degno del miglior western o Bond movie preceduto da una scena in cui c’è qualche problema con un GPS.
Valerio Aprea: "Tutti voi avete visto il mio numero circense, quello in cui perdo il GPS. Quando ho fatto la prima prova, sono caduto dal treno fremo e da agosto ne porto ancora le stimmate".
Lorenzo Lavia: "Le scene d’azione che abbiamo girato sono state pericolose anche per noi, perché non c’erano solo gli stunt, erano faticose, ce ne stavamo in Puglia, 12 ore al giorno sotto il sole, su questi sidecar, o sul container, che non sembrava poi così alto e invece lo era".
Marco Bonini: "Dopo otto mesi di durissima dieta a cui Sydney mi ha sottoposto e allenamenti di tai chi e delle più disparare arti marziali, mi sento di ringraziare i registi e i produttori, perché adesso, se perdo le chiavi di casa, so che posso scavalcare il cancello. Ho perso 4 chili e acquistato un tono muscolare che non avevo nemmeno a 18 anni, che però mi ha abbandonato quasi immediatamente".
Rosario Lisma: "Nessuna scena da stunt mi ha dato l’adrenalina che ho sentito scorrere dentro di me quando sono rientrato nella città universitaria. Da giovane ho fatto studi giuridici. I ragazzi commettono questi errori madornali. Ho pensato a come sarebbe stata la mia vita se avessi seguito quella strada".
Giampaolo Morelli: "Da un fisico scolpito che avevo, perfettamente depilato e sempre spalmato di olio, sono passato a un fisico da ingegnere meccatronico. Per ottenere il massimo risultato, ho seguito una dieta a base di zeppole e sfogliatelle".
Luigi Lo Cascio: "Quando Sydney mi ha chiamato, mi ha detto: non mi interessa l’attore ma il tuo corpo, il tuo funambolismo, i tuoi nervi. Mi sono lasciato prendere dall’entusiasmo e ho preteso di non avere lo stuntman, naturalmente non mi hanno ascoltato. Però una cosa l’ho capita: voglio diventare stuntman, se questo mio lavoro non funziona, so già come riciclarmi".
Sydney Sibilia: "La mia ambizione era conciliare l’azione, che di solito non è accompagnata da grandi dialoghi, soprattutto nei film americani, con la commedia all’italiana, che di suo è molto verbosa. Ci ho provato anche nella sequenza del treno, di cui sono molto orgoglioso. Più che all’action contemporaneo americano, che si avvale di molta computer grafica, ho pensato ai film degli anni Settanta, espressione di un cinema coraggioso e artigianale, e nello stesso tempo industriale".
Edoardo Leo: "Quando penso agli action-movie, mi vengono sempre in mente gli attori americani, che si incontrano e si dicono: facciamo quel film dove scopro una nuova galassia? E quello dove scalo la Statua della Libertà? Noi italiani maneggiamo copioni più semplici. Quando leggi sulla sceneggiatura che devi guidare un sidecar nazista sulla Cristoforo Colombo, non puoi dire no, perché tiri fuori la tua parte di adolescente che adorava Indiana Jones. Certo, negli Stati Uniti i set sono più vasti e le strade su cui inseguirsi ben più lunghe. Io e Stefano Fresi, per tornare sulla Colombo, avevamo tutta una strada da fare dove non c’erano macchine da presa. La gente ci guardava perplessa. Forse pensava: guarda sti’ due, se so’ montati la testa, vanno in giro con gli elmetti con le svastiche".
Pietro Sermonti: "Il tratto interessante di questo film è che si parte da due persone sedute a un tavolo e si va verso l’azione. Per un attore fare un film d’azione è una cosa interessante, dovevamo guardare lo scotch numero 1, lo scotch numero 2, numero 3, eccetera. Bellissimo!".
Paolo Calabresi: "Il valore aggiunto di questo film è che, pur essendo un’ action-comedy, non va mai sul sul grottesco o sul surreale, due stanze in cui i cinematografari si si rifugiano quando non sanno come far ridere. Qui si resta sempre sulla verità".
Libero De Rienzo: "La mia più grande soddisfazione, quando ero appeso a quel vagone, è stato dire a una signorina del servizio Sky che mi ha chiamato: non rompere, sto attaccato a un treno. E lei: dite tutti così!".
Dopo questa infilata di dichiarazioni spiritose, l’incontro con i giornalisti ha preso una piega più seria e Sydney Siblilia ha spiegato il perché della trilogia al posto, per esempio, di una serie tv: "La serie non ci sarà perché c’è già la saga. La serialità mi interessa molto in termini di linguaggio. Con una serie hai dieci, dodici episodi, è come se fosse un unico film. Noi volevamo tre film distinti e belli grossi. Il nostro è un prodotto squisitamente cinematografico, un’enorme macchina produttiva che non è stato poi così complicato gestire, se non per il fatto che, non essendoci storyboard, dovevamo inventarci un po’ tutto. Abbiamo speso, e molto, e questo perché volevamo offrire un prodotto di altissima qualità al pubblico. Ovviamente, quando ho girato Smetto quando voglio, avevo le paure di un regista alle prese con la sua opera prima, il mio pensiero non andava certo alla possibilità di realizzare due sequel. E invece è successo. Il primo si chiama Masterclass perché somiglia un po’ a business class e perché la banda spiega alla polizia come funzionino certe cose. Su Ad Honorem non posso dire nulla".
Per Sibilia il film ha un messaggio preciso: "Il messaggio di Masterclass è che c’è ancora speranza. Il finale dolceamaro del primo film mi piaceva fino a un certo punto, io sono ottimista, ho deciso di girare altri due film anche per dire: c’è ancora qualcosa di buono in cui credere".