Scalare l'Everest e navigare in laguna: o di come abbiamo incontrato Josh Brolin e Emily Watson a Venezia 72
I due attori al Lido con il resto del cast del film d'apertura.
Festival di Venezia 2015: Ora vi spiego come funziona un grande press junket internazionale. Che, tradotto per i non addetti ai lavori, sarebbero le interviste a registi e attori dei grandi film hollywoodiani.
Alle ore 8:30 del mattino di oggi, ad esempio, un piccolo gruppo di giornalisti di tutto il mondo è stato radunato alla Darsena del Casinò del Lido, caricato su una lancia e trasbordato sull'Isola delle Rose, sede di un grande e lussoso hotel che ospita il cast di Everest. L'atmosfera, ovviamente, è quella di una qualsiasi gita scolastica o aziendale, carica di facezie, pigrizia e goliardia.
Una volta sbarcati, (lì o in un qualche altro luogo a scelta, a seconda dei film) i giornalisti attendono con maggiore o minore pazienza il momento in cui dovranno incontrare "il talent", tanto per rimanere nel gergo degli addetti ai lavori: inutile dire che, spesso, l'ordine di chiamata riflette precise gerarchie, e che le lotte per essere davanti a qualcun altro sono all'ordine del giorno. Quando, come in questo caso, gli eventi sono gestiti da uffici stampa internazionali, le gerarchie locali possono a volte saltare, scatenando momenti di ansia e ira presso coloro che si sono sentiti defraudati di ciò che è loro per diritto.
Davanti al talent (e agli operatori, e ai fonici, e ai publicists, e ai traduttori) hai pochi minuti, scanditi da un cronometro, per fare le tue domande e ottenere le tue risposte. E guai a sgarrare coi tempi: perché dopo di te è subito il turno di un altro, e tu devi correre su un altro set dove ti aspetta un altro talent.
Nel migliore dei casi, è una macchina perfetta ma delicata, che ti devi augurare non essere tu a far inceppare. In altri, i tempi morti abbondano, ma alla fine tutto gira come deve. Più o meno.
È stato il caso di oggi, dove la mia permanenza sull’Isola delle Rose è stata di circa quattro ore per fare due interviste di pochi minuti l’una: la prima a Josh Brolin, che in Everest interpreta Beck Weathers, alpinista americano che ha preso parte alla disastrosa spedizione del 1996 raccontata nel film; la seconda a Emily Watson, che è invece Helen Wilton, responsabile del campo base del gruppo protagonista delle vicende.
Estroverso e generoso lui, più compunta e riservata lei, Brolin e Watson hanno fatto fede ai rispettivi stereotipi nazionali, ma hanno parlato con uguale passione di un film che - per tema e per modalità di ripresa - è stata una vera e propria avventura che ha costretto i protagonisti a un’intimità e a uno spirito di gruppo molto simile a quello di un gruppo di alpinisti che affronta assieme una spedizione.
“Simile, ma non uguale,” ha voluto specificare Josh Brolin. “Andare sull’Everest è come andare in guerra, e si forma uno spirito cameratesco come quello dei militari in missione. Per noi non era una guerra, ma durante le riprese in Nepal e in Val Senales si è formato legame forte. A volte anche troppo, nei giorni in cui magari non avevo voglia d’incontrare Jake Gyllenhaal o Jason Clarke, e viceversa” ha poi aggiunto scherzando. “Non vivevo un'esperienza di gruppo così intensa sul set dai tempi de I Goonies, e nessuno dei tanti film che ho girato in tutti questi anni si era mai avvicinato a quello che avevo provato allora.”
“Sì, si è davvero creato un clima speciale, un legame particolare, soprattutto tra quelli che interpretavano gli alpinisti e sono stati obbligati a vere, dure escursioni sull’Himalaya o sulle Dolomiti,” ha confermato Emily Watson. “Quelle che abbiamo dovuto affrontare assieme sono state vere sfide.”
Sfide che per Brolin non sono state solo fisiche o psicologiche, ma perfino spirituali nel doversi spingere oltre i propri limiti, nonostante la finzione: “Non si può capire quello che spinge le persone a compiere determinate imprese, come lo scalare l’Everest; forse non lo capiscono nemmeno loro. Quello che per me è interessante non è lo scalare l’Everest in sé, ma affrontare un’esperienza estrema: un’esperienza che, sebbene in scala, abbiamo dovuto affrontare anche noi. Vincendo, ad esempio, le mie vertigini nel dover superare per forza un ponte sospeso sull’Himalaya, mentre la mia fidanzata mi aspettava dall’altra parte.”
Per Brolin, l’aver interpretato un personaggio realmente esistito non ha cambiato molto del suo lavoro durante le riprese: “Ci ho pensato prima, e dopo, ma sul set la convinzione con cui affronto ogni ruolo è la stessa, devo essere il più credibile possibile per lo spettatore indipendentemente dal ruolo che interpreto.”
Emily Watson, parlando della vera Helen Wilton, ha raccontato delle lunghe conversazioni su Skype avute con lei, e del fatto che avesse messo a disposizione del film tutte le registrazioni audio delle conversazioni radio e telefoniche di quella spedizione: “Le aveva conservate per anni, senza mai pubblicarle, utilizzarle o fornirle a nessuno. Le ha volute però dare a noi, ed è stata una cosa molto importante.” Anche perché, come ha ricordato la stessa attrice, su quello che è realmente accaduto sull’Everest in quel maggio del 1996 ci sono ancora versioni discordanti: “Molti dei partecipanti hanno versioni diverse,” ha spiegato, “anche perché i loro ricordi sono spesso confusi a causa delle condizioni climatiche e della penuria di ossigeno cui sono stati sottoposti.”
Quello che Watson ama del film, è che “è molto pulito, ha qualcosa di puro. Nonostante sia ad alto budget, non è stato trasformato in un baraccone hollywoodiano, penso sia complesso e sottile.” Un giudizio che potrete verificare a partire dal 24 settembre, quando Everest tenterà la scalata al botteghino italiano, o confrontare con quello della mia recensione.
Tornato al Lido, mentre scrivo in sala stampa quello che avete appena letto, sono costretto ad ammettere che più delle parole di Brolin e Watson (non me ne vogliano, non è un limite loro, che anzi son stati cortesi e interessanti), quello che è rimasto più impresso delle ore trascorse sull’Isola delle Rose, è un attimo di vita reale rubato a Jason Clake e Jake Gyllenhaal, anche loro presenti ai junket. Prima di entrare nella sala che faceva loro da set televisivo, infatti, gli attori hanno scorto i due alpinisti nepalesi che hanno lavorato con loro al film, e che passeggiavano schivi e silenziosi nei giardini dell’hotel; gli si sono avvicinati, e li hanno salutati con un rispetto e una deferenza che tradiva, evidentemente, un legame profondo stabilito con loro sull’Himalaya. Quel legame di cui parla il film, quel legame che nasce dalla montagna e dalle sue asprezze.
Un legame che è bello ricordare anche (e forse soprattutto) spersi nel piattume del Lido di Venezia.
Foto ASAC - © la Biennale di Venezia