Roberto Minervini continua a raccontare l'America sommersa in What You Gonna Do When the World's on Fire?
"Per me il cinema è un processo d'apprendimento, non d'insegnamento," dice il regista presentando il suo film a Venezia.

Dopo Stop the Pounding Heart e Louisiana, con What You Gonna Do When the World's on Fire? Roberto Minervini continua a raccontare gli Stati Uniti d'America, ma non quella solita. Quella che lui definisce "del sottosuolo", quella poco o niente raccontata e rappresentata, che in questo caso è quella della comunità afroamericana di New Orleans e della Louisiana.
Questa volta, a essere raccontati dalla macchina da presa di Minervini, sono Judy, una donna del quartiere di Tremé, che gestisce con fatica un bar; due fratelli di quattordici e nove anni che la mamma single ha cercato faticosamente di tenere lontano dai guai; alcuni membri delle rinate Black Panthers; e gli indiani afroamericani del Mardi Gras.
"È stata Judy la porta su questo mondo, sulla comunità a lei vicina," spiega Minervini. "Perché lei proviene da una famiglia di musicisti storici di New Orleans, avevo iniziato a frequentare il suo bar, perché l'idea iniziale che avevo era quella di raccontare una delle storie dei neri americani attraverso la musica folk blues."
Cosa siano invece gli indiani del Mardi Gras lo spiega un altro protagonista del film, Chief Kevin: "Nell'Ottocento molti schiavi liberati, che non sapevano dove andare, furono accolti dagli indiani nelle loro riserve. Mettiamo dei costumi durante il carnevale per onorare e ringraziare gli indiani che ci hanno accolto e protetto nella loro terra, cantando delle canzoni che sono spiritual che ci fanno entrare in contatto coi nostri antenati."
Anche in What You Gonna Do When the World's on Fire? Minervini conferma un metodo di lavoro oramai abituale per lui: "Non ci sono sceneggiatura né trattamenti. L'approccio è quello dell'osservazione, e la vera scrittura è il montaggio. Al montaggio riusciamo a far fluire tutti questi momenti raccolti che sono tanto reali da sembrare di finzione. La mia attenzione è sempre rivolta verso le cose che conosco meno e che vedo meno," prosegue. "Per me il cinema è un processo di apprendimento, non di insegnamento, e quindi vado lì dove ho delle lacune da colmare. Come bianco europeo ho sentito la responsabilità di portare alla luce quello che non conosco e non si conosce."
Il regista parla di questo suo nuovo film come "uno dei più appassionanti che ho fatto. La grande difficoltà è stata emotiva, è stata toccare con mano situazioni difficili, che sono di pubblico dominio che però da vicino diventano molto dure da sostenere." In What You Gonna Do When the World's on Fire? si parla infatti di povertà, di droga, ma soprattutto della discriminazione e della violenza che hanno subito e continuano a subire gli afroamericani nel Sud degli States e non solo lì. Ma anche se oggi sembra di assistere di nuovo a quello che accadeva cinquanta o sessanta anni fa, sono cambiate le cose nel corso dei decenni, secondo Minervini? "Una delle cose che ho imparato con questo film," spiega, "è la necessità di rispondere alle domande in due modi: dal punto di vista dei bianchi, e da quello dei neri. Dal primo alcune cose sono indubbiamente cambiate, dal secondo no. La violenza è sempre esistita, il Klan, di cui faceva parte il padre di Trump, è sempre stato operativo. È commovente e agghiacciante, per me, vedere come le giovani generazioni possano convivere in maniera terribile e inevitabile con la paura e la violenza."
Per Minervini, quello che accade oggi negli Stati Uniti, e anche in Italia, "sono gli tsunami che erano stati preannunciati dalle piccole onde. Ricordo bene come venivano trattati sulle spiagge dell'Adriatico i primi tra quelli che una volta chiamavamo 'vu cumpra'', quando ero bambino."
Ma, secondo il regista, arrivare a una soluzione della questione razziale prevede necessariamente un periodo di radicalismo e di separazione: "Perché la parte bianca dell'America non ha ancora pagato il dazio per i torti fatti agli afroamericani. Non penso sia possibile e pensabile, oggi, pensare a un'alleanza tra la voce di Minervini e quella di Spike Lee, ad esempio. La differenza tra i bagagli culturali è ancora troppa. Bisogna risolvere la questione radicalmente, prima di poter costruire una vera e propria comunità interraziale."
D'altronde, il regista parla anche per esperienza personale: "I miei figli sono 'giallognoli', sono per metà asiatici, e io mi rendo conto che loro non possono contare per crescere sulla la stessa terra fertile che io ho avuto io da bambino bianco."