Richard Gere alla Berlinale 2017: "La paura dei rifugiati maggiore crimine di Trump”
Presentando The Dinner di Oren Moverman si torna sul clima politico internazionale.
Non sono molti gli attori che continuano a richiamare da decenni folle di appassionati, di varie età. Uno di questi è sicuramente Richard Gere, il cui fascino sale più che pepe non sembra conoscere crisi. Al massimo, suscita qualche malinconica considerazione sul tempo che passa - più per chi commenta, a dirla tutta -, e un sospiro di approvazione per la sua eleganza. Lo ha dimostrato anche oggi, a Berlino, dove è stato presentato The Dinner, il suo secondo film con il regista israeliano (e americano) Oren Moverman, dopo il non indimenticabile Gli invisibili di alcuni anni fa.
Moverman ha alle spalle una decennale carriera come sceneggiatore, mentre come regista ha convinto soprattutto con il suo esordio Oltre le regole, vincitore qui alla Berlinale dell’Orso d’argento nel 2009.
The Dinner è tratto dal bel romanzo dell’olandese Herman Koch, già portato al cinema in una versione locale passata per Toronto e dal nostro Ivano De Matteo ne I nostri ragazzi. Quindi questa è addirittura la terza versione della storia di una cena fuori dall’ordinario, in cui due fratelli, con le rispettive mogli, si ritrovano per decidere come comportarsi in seguito a un grave evento che ha visto coinvolti i loro figli. In questo adattamento americano, Richard Gere è un uomo di successo, membro del congresso e in corsa per la carica di governatore, mentre Steve Coogan è il fratello con problemi di instabilità psichica, con Rebecca Hall e Laura Linney nei panni delle rispettive mogli.
“Non conoscevo il libro - ha dichiarato Gere -, ma dopo aver lavorato con Oren siamo diventati molto amici e di lui ho piena fiducia. Senza non si può sperimentare, seguire un percorso creativo aperto, affascinante, come abbiamo fatto in entrambi i film, pur molto diversi. Mi ha detto di non leggere il libro, ma quello che subito mi ha colpito nel mio personaggio è il fatto che emerge solo molto avanti. La sfida era di mantenerlo in vita, interessante, per la prima parte. All’inizio sembra rispondere ai cliché del politico superficiale, sciupafemmine, per poi capovolgerli più avanti nella storia.”
Laura Linney ha parlato della sfida di appassionare raccontando di quattro personaggi per lo più seduti attorno a un tavolo, ricordando con una battuta, come “con Richard Gere facciamo un film insieme ogni decennio, ottima occasione per controllare come stanno andando le nostre vite”. Assente a Berlino Rebecca Hall, molto convincente nel ruolo della moglie trofeo del politico, giovane e bella, in grado di regalare un magistrale momento di seduzione e manipolazione. C’era invece Steve Coogan, che ha dato il via all’inevitabile girandola di considerazioni sull’attuale momento politico, relativizzando le pulsioni violente del suo personaggio: “rispetto allo stato di salute del presidente degli Stati Uniti ha non più di un mal di testa”.
Parlando di politica, mantra anche di questa edizione della Berlinale, Oren Moverman ha parlato di una speciale sintonia con Steve Coogan, "condividiamo una rabbia politica e di altro tipo. Una prospettiva su come il mondo dovrebbe essere ma non è, che non ci mette a nostro agio, ma ci spinge a volerlo cambiare, affrontando tematiche sociali che erano nel libro e spettava a noi elaborare. Adattandola alla realtà americana ho anche rivisitato alcune sue pulsioni chiave, attraverso il ruolo di Gettysburg e della sua cruciale battaglia di svolta sanguinaria della Guerra civile. Coogan ha elogiato i suoi colleghi, “all’inizio ero spaventato dalle tante parole, dai dialoghi impegnativi, ma quando lavori con bravi partner è come nelllo sport, rendi lo scambio piacevole. È stata dura, ma è valsa la pena”.
Sornione ed ecumenico per buona parte dell’incontro con i giornalisti, Gere ha voluto chiudere con un’accelerata sul tema a lui particolarmente caro del rispetto dei diritti umani. “Il numero dei crimini legati all’odio è incrementato enormemente dopo l’elezione di Trump. Stimolare la paura provoca ricadute terribili. Dobbiamo fare attenzione a come parliamo, come ci caratterizziamo rispetto all’altro. Ormai è diventato comune associare terrorismo e rifugiati, quando questi erano considerate persone a cui avvicinarsi con empatia, a cui badare, a cui dare rifugio, come dice la parola. La paura suscitata del rifugiato è il maggiore crimine di Trump e di questo movimento conservatore che sta prendendo piede nel mondo. Viviamo tutti nello stesso posto, dovremmo abbracciarlo tutti insieme.”