Interviste Cinema

Petit Paysan: la sorpresa francese dell’anno raccontata dai vincitori del César Hubert Charuel e Swann Arlaud

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Un thriller contadino sorprendente.

Petit Paysan: la sorpresa francese dell’anno raccontata dai vincitori del César Hubert Charuel e Swann Arlaud

Petit paysan è stato la vera sorpresa della scorsa stagione in Francia. Chi l’avrebbe mai detto che la storia di Pierre, un contadino alle prese con un’epidemia simile alla mucca pazza avrebbe potuto appassionare come un thriller ad alta tensione… con vacca?

Il suo entusiasmante percorso è cominciato con la presentazione alla Semaine de la Critique di Cannes, arrivando alle otto nomination ai César, con ben tre vittorie inattese: Petit paysan è stato votato miglior opera prima del 2017, miglior attrice non protagonista Sara Giraudeau, sorella e veterinaria del protagonista, un eccellente Swann Arlaud, che ha portato a casa la vittoria come miglior attore. L’abbiamo incontrato a Parigi, insieme al regista trentenne Hubert Charuel, in occasione dei Rendez-Vous di Unifrance.

Come è nata l’idea di questo trailer fra le vacche?

Hubert Charuel. Sono figlio di contadini e non ho rilevato la fattoria dei miei genitori, perché ho preferito fare film. Volevo raccontare cosa sarebbe potuta diventare la mia vita se non avessi fatto cinema e un evento mi ha molto segnato da ragazzo: la crisi della mucca pazza. Delle epidemie che hanno scatenato paure angoscianti per le campagne negli anni ’90, anche nei miei genitori. Si tende ad associare il mondo rurale al documentario, mentre volevo prendere l’universo contadino e ambientarci un thriller.

Pierre è un protagonista che vive sui nervi, sempre in tensione, con degli incubi che gli anticipano una catastrofe pronta ad arrivare. 

Swann Arlaud. Per lui la fattoria rappresenta tutto, quindi la sua fine rappresenterebbe la fine della sua vita. Sullo sfondo, anche se non trattata nel film, c’è la questione del tasso di suicidi in ambiente contadino, di chi fa un mestiere così impegnativo e riesce a malapena a viverci. In quel mondo la vita e la morte sono presenze costanti. Mi sono preparato in maniera semplice: ho lavorato volontario alla fattoria della famiglia di Hubert, ho imparato a mungere le vacche, a portarle dalla stalla alla sala di mungitura, una formazione legata ai gesti e al contatto con gli animali. Poi ho fatto un lavoro fisico per prendere della massa muscolare, visto che già a 13 anni i contadini fanno lavori impegnativi nella fattoria. Il resto è stato un lavoro enorme sulla sceneggiatura con Hubert, prima delle riprese, delle letture del testo, visto che abbiamo vinto un premio per la sceneggiatura che consisteva nella recitazione alla radio dello script. In questo modo, senza renderci conto, abbiamo lavorato al film, non tanto alla lettura. Abbiamo passato tantissimo tempo, anche con co-sceneggiatrice Claude Le Pape, a limare costantemente. Hubert mi ha poi detto da subito di non cercare un personaggio, ma che ero io a lavorare alla fattoria. Non mi sono posto la peggiore domanda a cui potessi cercare una risposta: come interpretare un contadino? Non ragioni poi mai, come attore, in senso globale, ma scena per scena, specie non rispettando nelle riprese l’ordine cronologico.

Ha coinvolto la sua famiglia per il film, com’è andata?

H.C. Era in linea con la tematica del film, è stato un set molto famigliare. La preparazione di Swann è stata vivere in fattoria. Non è che imparava a lavorare con le mucche in giornata e poi tornava a casa la sera, ha vissuto per due settimane dai miei genitori, mangiando insieme a loro. Ma per girare un film ci vogliono molte persone, per fortuna erano di casa perché avevo già girato dei cortometraggi con i miei genitori che recitavano e quindi si conoscevano. È venuto tutto in maniera molto naturale: giravamo da loro, quindi erano loro ad accogliere la troupe e gli attori. C’è stata una sorta di osmosi, di condivisione. Fin dall’inizio, con la direttrice di casting, eravamo d’accordo nello scegliere l’attore migliore per il ruolo, se poi non mi sarei trovato in sintonia mi sarei regolato di conseguenza. Ci voleva una disponibilità a gettarsi nella vita contadina, che è totalizzante, fatta del lavoro, ma anche della vita privata, che è però molto legata al lavoro.

In epoca di ricoperta dei prodotti locali, a km zero, c’è qualcuno che arriva da lontano, da Bruxelles, e impone delle quote per il latte o le regole della fattoria. Una situazione vissuta anche oggi non benissimo nelle campagne francesi, giusto?

H.C. È assolutamente così, siamo liberi, ma per vivere bisogna lavorare, ci vogliono i soldi e accettare dei compromessi. Sono liberi, ma hanno la sensazione che la vita non gli appartenga fino in fondo, è anche di questo che parla il film. Pierre ha i suoi animali, ma non può fare con loro quello che vuole, c’è un equilibrio sottile e nella finzione del film c’è qualcosa che rompe questo equlibrio.

Per chi non conosce la vita contadina è qualcosa che sorprende, tutta questa burocrazia.

H.C. È vero, e per noi che abbiamo scritto il film c’era un lato anche divertente, legato alla dimensione thriller, il fatto che sbarazzarsi di un cadavere di mucca è altrettanto difficile, anzi di più, che liberarsi di un cadavere umano. Sono registrate amministrativamente, hanno dei documenti d’identità e allo stesso tempo pesano 700 kg e non sono così facili da spostare.

Il film mi ha ricordato un thriller americano degli anni ’70, pieno di paranoia e con poche parole.

H.C. Mi fa felice il fatto che lo dica, e che titoli le ha fatto venire in mente?

Non so, La conversazione di Coppola, De Palma.

H.C. Glielo chiedo perché non sono riferimenti coscienti, naturalmente abbiamo mille registi che adoriamo e con cui siamo cresciuti, dai comici francesi a Ridley Scott e i fratelli Coen. Ma nello strutturare il film non avevamo riferimenti chiari.

Lo spunto è molto classico: un uomo ordinario in una situazione straordinaria.

H.C. Certo, come Hitchcok insegna. 

S.A. Parlando di un tipo normale a cui succedono cose straordinarie mi vengono subito in mente i fratelli Coen, nei loro film è una costante. 

I fratelli Coen con vacca, allora. A proposito, com’è andato il lavoro con gli animali, specie con l’ultima nata, a cui Pierre è così affezionato da portarsela anche sul divano, che mi ha ricordato il neonato che deve costruire la nuova umanità in un film apocalittico.

S.A. Hubert mi ha detto da subito che se avessi avuto paura l’avrebbero avuta anche loro, e viceversa. Abbiamo il potere di dominare la nostra paura, basta lavorarci, mi sono fidato da subito e il cinema è un ambiente comunque molto sicuro, per cui mi sono detto di andare in mezzo alle mucche, se mi rompevano un piede, pace. Avevo 15 persone intorno a me, non era come trovarsi solo. Solo ora, a film finito, posso dire di avere qualcosa di speciale nel mio rapporto con gli animali, me ne sono reso conto quando lo ha detto in un’intervista Hubert stesso.

H.C. Abbiamo iniziato le riprese con tutte le scene in cui Pierre munge le vacche, e avevo detto già alla produzione che probabilmente i primi due giorni avremmo dovuto buttare tutto il girato, perché serviva che Pierre si abituasse alle mucche e il contrario. La cosa miracolosa è che dopo due giorni ho smesso di vedere un attore che si aggirava nella fattoria dei miei genitori, in posto che conosco fin da quando sono nato, ma era Pierre in osmosi con la sua mandria. La sequenza dell’incubo, in cui gli animali si aggirano per casa, poteva farla solo Swann, perché lo conoscevano. È la prima volta che mi capita di vedere un attore che, quando le mucche non stanno al loro posto, invece di andare dal regista e dirgli di chiamarlo quando le hanno raggruppate, si mette al lavoro con l’addestratore. Era la sua mandria, c’era una vera osmosi fra Swann e le mucche.


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