Motherless Brooklyn: regista e cast ce lo raccontano in anteprima
Il film di e con Edward Norton inaugura la Festa del Cinema 2019 per poi uscire al cinema il 7 novembre.
Scelto come film di chiusura del New York Film Festival (e di apertura della Festa del Cinema 2019) Motherless Brooklyn – I segreti della città (nei nostri cinema dal 7 novembre) rappresenta il ritorno alla regia di Edward Norton più di vent'anni dopo il suo esordio Tentazioni d'amore. Ispirato dal romanzo omonimo di Jonatham Lethem, il film vede protagonista lo stesso Norton nel ruolo di Lionel Essrog, il quale vuole scoprire la verità dietro l'assassinio del suo mentore Frank Minna, interpretato da Bruce Willis. Insieme a loro a interpretare questo noir metropolitano troviamo anche Willem Dafoe e Gugu Mbatha-Raw. E sono stati proprio questi ultimi due, insieme all’attore e regista, a presentarci il film nella Grande Mela.
L'adattamento dal libro di Lethem è piuttosto libero, ha un’ambientazione temporale più precisa e una trama molto diversa. Come mai queste scelte?
Edward Norton - Il cuore del libro di Jonathan è il personaggio di Lionel. Il lettore si immerge costantemente nell’intimità che il tresto crea perché sei dentro la sua testa, ascoltando ad esempio come cerca di calmarsi, mentre all’esterno la sua patologia rende la sua vita molto difficile. Alcuni momenti sono divertenti, altri toccanti. Sotto questo punto di vista la trama diventava quasi secondaria, la vita interiore di Lionel è ciò che si ricorda maggiormente di Motherless Brooklyn. Leggendoli si può percepire che i personaggi vivono negli anni ’50, e Jonathan ama da sempre il noir e le detective-story. Ha supportato la mia idea di ambientare il film in un’era in cui la gente non sapeva ancora con precisione cosa fosse la sindrome di Tourette, un tessuto sociale ancora un po’ più duro, all’antica. Ho cercato di dare forma al film alla maniera di L.A. Confidential, questi grandi film in costume in cui ti immergi e rimani ipnotizzato, dove la trama è complessa e piena di personaggi minacciosi, poteri oscuri. Spero che nel film come nel libro ci si affezioni a questo personaggio che vive ai margini ma nel corso della storia trova il modo di farsi valere.
Quando si gira un film in costume come questo come si usa la specificità di abiti, acconciature e tutto il resto per capire il personaggio?
Willem Dafoe - E' l’associazione logica che ti indica cosa fare. Si tratta pur sempre di una maschera che indossi, la quale ti libera e ti allontana dal modo in cui vivi ogni giorno, dal modo in cui appari o pensi. Ti permette di entrare in un altro mondo, in cui la finzione si trasforma in una nuova realtà che devi plasmare.
Gugu Mbatha-Raw - Io preferisco cominciare ad avvicinarmi al personaggio attraverso le qualità umane a cui posso relazionarmi, ovviamente nel rispetto dell’epoca. Cosa Laura sta passando, dov’è l’umanità. Certo, nel caso di un film in costume hai il vantaggio di indossare abiti che sono davvero diversi da quelli che sei solita portare. In questo film ad esempio avevo corsetto sotto il costume, la silouette è davvero quella degli anni ’50, col reggiseno a punta. Insomma un forma molto differente da quella di oggi. E’ stato istruttivo perché disegna come cammini, come ti muovi, in maniera molto sottile sottile ti aiuta a uscire dal tuo solito linguaggio del corpo e a costruirne uno specifico per il personaggio.
Dovendo caratterizzare una figura complessa come Lionel Essrog, quale è stato il momento che l’ha maggiormente impegnata?
E.N. – Senza dubbio la prima volta in cui decide di non sopprimere le sue compulsioni vocali. Parlo della scena nel jazz club, dove Lionel si è leggermente ubriacato e lascia che la bellezza della musica ispiri la sua sindrome. Per lui si tratta di un momento in un certo modo liberatorio, è come se cantasse insieme al jazz. E’ stato difficile perché sapevo che sarebbe stato impossibile pianificarla, doveva avere qualcosa di istintivo. Vedevo arrivare il giorno delle riprese e sapevo di doverlo fare nella maniera giusta, dovevo catturare quel momento magico. E’ stata senza dubbio una delle scene maggiormente improvvisate di tutto Motherless Brooklyn...
E invece per quanto riguarda il personaggio di Laura, che nel corso della storia scopre molte verità nascoste?
G.M-R. – E’ vero, Laura intraprende un viaggio molto profondo. Senza rivelare troppo, si trasforma in un’esperienza piuttosto scioccante per lei. Per me ci sono state molte scene emotive, probabilmente una delle più complesse è quando scopre che suo padre è stato assassinato. E’ una scena emotivamente estenuante, in più Edward voleva girarla in due sole inquadrature, un taglio nel mezzo e una sola macchina da presa. E’ stato un sapore interessante da approfondire...
La figura di Paul Randolph ha rappresentato una grossa sfida a livello emotivo?
Non penso quasi mai in termini di emozione, di solito lo faccio in termini di azione. E’ difficile da dire, qualche volta i momenti in cui l’emozione traspare o dove sei più vulnerabile, oppure piangi, ebbene queste ironicamente non sono le scene più complesse. Il difficile spesso sta nel fare le cose in maniera contenuta, in cui senti l’emozione arrivare, in particolar modo con questo personaggio, eppure vuoi trattenerla perché non è questo di cui parla la scena. Non riguarda il lasciar andare l’emozione ma ottenere ciò che si vuole, qualcosa di più grande.
Avete percepito qualche differenza nel fatto che a dirigervi era l’attore che si trovava al vostro fianco durante la scena?
W.D. – Conosco Edward da anni, ci intendiamo davvero bene e il fatto che fosse il regista e l’attore insieme ha reso parecchie giornate di lavoro fluide, più immediate, un metodo di lavoro con cui mi trovo molto bene. Non ci sono mai stati problemi di fiducia riguardo la nostra visione comune del film perché quasi sempre si è esplicitata mentre giravamo. E poi se hai qualche domanda c’è solo un posto dove andare perché il regista, lo sceneggiatore e il produttore sono proprio di fronte a te!
G.M-R. - Ho amato, avere un regista in costume e cappello! Ed Edward ne indossa così tanti in questo film, sia letteralmente che in senso metaforico. E’ stato divertente vederlo guidare una macchina mentre gestiva un personaggio con la sindrome di Tourette, e insieme dirigere l’intero cast. Penso sia stato molto intelligente a circondarsi di un grande team: Dick Pope come direttore della fotografia, Beth Mickle come scenografa, c’è una grande attenzione ai dettagli in Motherless Brooklyn. Si sono fidati di lui e li ha ripagati col dovuto rispetto.
In carriera ha lavorato con molti grandi registi, impossibile nominarli tutti. Ce n’è uno a cui pensa di aver rubato qualcosa, da cui crede di aver imparato più degli altri?
E.N. – Penso s’impari qualcosa da tutti i maestri con cui lavori. Per questo film in particolare ho pensato molto a Spike Lee non solo perché gira sempre film che riguardano la nostra cultura, l’America e cosa non funziona. Si tratta di un grande cineasta che racconta la nostra storia sociale e i suoi problemi. E questo mi ha ispirato. Quando abbiamo girato La 25° ora abbiamo impiegato ventisei giorni, il che è straordinario, sono cento giorni in meno di quanti adoperati per Fight Club. Pochissimi cineasti possono lavorare a quella velocità e girare una storia così complessa. Ho osservato la maniera in ha realizzato il progetto, dalla preparazione alla pianificazione accurata delle giornate di lavoro. Spike è un vero comandante, sa come far funzionare il set. Vent’anni fa non avrei mai potuto fare Motherless Brooklyn, con questa scala e la sua complessità, se non avessi lavorato con persone come lui e Wes Anderson, i quali sono davvero molto bravi a pianificare. A ottenere molto con poco.
In che modo pensate Motherless Brooklyn possa mostrare al pubblico di oggi cosa non va nella situazione politica e sociale americana?
W.D. – Il film mette in scena come abbiamo delle responsabilità a livello umano l’uno con l’altro. Inoltre analizza il potere politico: da dove viene, chi lo detiene, quanto sia pericoloso quando è nascosto, quando non sappiamo da dove proviene. Un potere non supportato dalla gente è ancora più pericoloso e ciò viene rappresentato molto bene in questa storia. Parlo del personaggio che Alec Baldwin interpreta, un uomo che non è stato eletto e non rende conto a nessuno, ma è causa di grande cambiamento. Si sente giustificato ad agire perché sa che la gente non si accorge di ciò. Lui risponde soltanto ad altre persone di potere, non si interessa o si preoccupa di chi non condivide la sua visione. Questo in Motherless Brooklyn non viene espresso in maniera didattica o accusatoria, è soltanto un’analisi interessante della natura del potere personale. Quando la macchina del potere si mette in moto ci sono sempre danni collaterali: abbiamo il dovere di essere sicuri che questo non sia doloroso per coloro a cui teniamo.
G.M-R. - Ci sono molti temi nel film da vedere per chi lo vuole. E’ principalmente la storia di uno uomo ai margini che a causa della sua sindrome non viene visto per ciò che realmente è, ma che alla fine tenta di sistemare i conti con alcune figure di potere che ne abusano. Penso che questo si possa facilmente adattare alla nostra società. E’ anche una lettera d’amore a New York. Ognuno che ama questa città e ama il genere noir, le detective-story, si sentirà abbracciato dal film.