Michael Mann ci parla di Blackhat e della sua visione di cinema
La nostra intervista al regista in attesa di vedere il suo nuovo film dal 12 marzo
Michael Mann non è un cineasta che si perde in preamboli.
E’ venuto per parlare del suo nuovo film Blackhat con la solita, ammirevole competenza, unita all’entusiasmo di chi ama il proprio lavoro. Ecco dunque cosa ci ha raccontato.
Prima di tutto perché ha fatto passare ben cinque anni da Nemico pubblico a Blackhat?
Sono stato impegnato per due anni con Luck insieme a Dustin Hoffman e al mio vecchio amico Dennis Farina, adesso comparso. Una serie TV in cui mi sono divertito moltissimo. Poi ho iniziato una sceneggiatura intitolata Big Tuna e un’altra intitolata Agincourt che sto ancora sviluppando, ambientata nel 1415. Ho iniziato a lavorare a Blackhat nell’agosto del 2011, da allora sono passati tre anni e mezzo.
Come nasce l’idea per questo film?
Ho iniziato a pensare a Blackhat quando mi sono informato in maniera più dettagliata su Stuxnet, un virus informatico creato appositamente dagli americani per colpire una centrale nucleare iraniana. E’ stata la prima arma virtuale mai realizzata, hanno capito che si era trattato di un attacco solo diciotto mesi dopo che era avvenuto. Ho pensato che se fosse stata opera di un uomo solo sarebbe stato un ottimo spunto per un film. Una specie di partita a scacchi al contrario, dove a vincere era chi riusciva a bloccare gli attacchi dell’avversario. Ho iniziato a studiare il mondo degli hacker illegali, i cosiddetti blackhat, e mi si sono presentate molte possibilità drammaturgiche. Viviamo in un’epoca in cui le informazioni virtuali regolano tutto, eppure continuiamo a comportarci come se pensassimo di avere ancora il controllo, come se la nostra privacy non fosse in pericolo.
E’ stato un progetto difficile da realizzare?
Complesso, sì, ma lo sono tutti i miei film in fondo. La stesura della sceneggiatura ha richiesto un anno e mezzo, e la pre-produzione quattro, cinque mesi, a causa delle numerose location. Poi abbiamo girato in sessantasei giorni in quattro differenti paesi, settantaquattro location differenti. Credo di avere la migliore troupe al mondo, lavoriamo insieme dal 1992, da L’ultimo dei mohicani, eppure questa volta ci siamo davvero spinti al limite delle nostre capacità fisiche.
Ha avuto un buon rapporto con la produzione?
Il film è stato finanziato dalla Legendary Pictures, che ha dimostrato un grande coraggio. E’ stata una delle mie esperienze migliori sia nella lavorazione che nel rapporto con i produttori esecutivi, in particolar modo con Thomas Tull. Non era un film facile da fare e per di più con questo budget, ma non hanno esitato un secondo. Abbiamo avuto i problemi che sempre sorgono con una produzione così grande, e li abbiamo superati grazie al loro totale supporto. Ho ricevuto non solo aiuto, ma anche consigli e opinioni totalmente competenti.
Si è trovato bene a girare a Hong Kong?
Volevo farlo dal 1979, per me è un posto favoloso, pieno di vita. Quando atterri all’aeroporto di Hong Kong e vedi queste torri gigantesche da sopra le colline è una visione straordinaria. Le strutture civili sono impressionanti, è stato difficile girare in quei luoghi perché ci sono così tanti pedoni, non amano che la vita di tutti i giorni venga interrotta dalle riprese di un film.
Il film inizia con una scena che riproduce ciò che succede a livello virtuale quando si invia un attacco informatico. Come l’ha ideata?
Se si osserva con un microscopio elettronico ciò che succede quando s’inviano dei dati tramite il comando di un computer, avviene proprio quello che ho cercato di visualizzare in questa scena. Sono le esatte caratteristiche geografiche di ciò che si mette in moto in un chip. Io ho solo cercato di renderlo il più possibile minaccioso, per sottolineare l'importanza dramamtica di quello che stava accadendo. Alcuni registi hanno bisogno di partire dalla fine per capire una cosa, io invece devo partire dall’inizio. Per realizzare la sequenza ho cominciato a capire come lavora un transistor e pian piano sono arrivato al funzionamento del tutto. Ho parlato con un gran numero di ingegneri elettronici e mi sono fatto spiegare tutti i processi, momento per momento. Cose basilari come la differenza tra un bit e un byte. Il problema era come rendere tutto questo drammatico. Ho usato l’immaginazione, non sono il tipo di spettatore che vuole vedere un personaggio scrivere su una tastiera per troppo tempo, serviva qualcosa di più energetico. Tutte le scene di attacco informatico ho cercato di renderle il più ritmate possibile.
La vera sorpresa di Blackhat sono due attori quasi sconosciuti in Occidente come Leehom Wang e Wei Tang. Come li ha scelti?
Tre anni fa ero presidente di giuria al Festival di Venezia, Leehom Wang venne da me e parlammo qualche minuto. Aveva un accento perfetto, così ho pensato fosse di qualche città americana come Buffalo o Detroit. Mi disse invece di essere di Pechino, ma che aveva studiato al liceo e all’università negli Stati Uniti. Era perfetto per il personaggio di Chen Dawai, un cinese educato in America al MIT, in grado di muoversi tra queste due culture così diverse. L’ho chiamato per un provino, alla fine ne abbiamo fatti cinque o sei. E’ affascinante in ogni cosa che fa, molto old-style, proprio ciò che cercavo. E’ un attore con una grande curiosità, per me è fondamentale: abbiamo discusso insieme di tantissimi dettagli riguardo il personaggio di Chen. Con Wei Tang è stata tutta un’altra storia: ricordo quando entrò nella stanza per il provino, il suo inglese non era accurato, ma dopo tre minuti sapevo che era lei la mia Chen Lien. Quando lo sai, lo sai. C’è un candore instabile in lei, è molto impulsiva e spontanea. Esattamente come Lien. Nelle backstory che ogni volta scrivo per i miei personaggi Lien si è dovuta fare largo nella vita con forza, a discapito di un universo maschile oppressivo. E’ diventata un ingegnere elettronico contro il volere della famiglia, e non avrebbe mai accettato di lavorare per una corporazione o per il governo, per lei l’indipendenza è tutto. Ci sono pochissimi ingegneri elettronici donna in Cina. In carriera penso di aver lavorato con molte grandi attrici e lei non è da meno, può fare un lavoro esaltante. Quando non gira resta sul set a osservare o si ritira nella sua camera d’albergo a pensare al personaggio, ha una disciplina incredibile che si trasforma in intensità, è un piacere vederla recitare con tale trasparenza. La cosa interessante è che quando si stanca il suo inglese inizia a peggiorare, così molti dialoghi li ha pronunciati come una specie di flusso di coscienza, il che ha dato ulteriore verità al suo personaggio.
Anche in Blackhat come in quasi tuti i suoi film c’è una scena in cui il protagonista si ferma a guardare l’orizzonte, come a cercare qualcosa di nascosto. Cosa significa per lei questo momento?
La mia ambizione è sempre quella di connettere il pubblico con il mondo interno dei personaggi: cosa provano, quali sono i loro sentimenti. Cerco di farlo nella maniera più intensa di cui sono capace. Mi piace rappresentare la verità di momenti in cui la gente normale non ha nulla da dire, in cui sei in preda a emozioni che non puoi raccontare. Ho parlato con molti ex galeotti, ho chiesto loro cosa provano nel momento in cui escono di prigione. Ecco da dove viene quella scena. Per quanto mi riguarda volevo regalare un pausa al pubblico e cercare di fargli assaporare l’atmosfera di Hong Kong, i suoi colori, da cui sono rimasto veramente inebriato. Per me è stata una commistione di sensazioni talmente forte da essere quasi dolorosa. Inoltre lo sguardo di Nick Hathaway (Chris Hemsworth, ndr.) verso lo spazio aperto rappresenta la minaccia incognita, un qualcosa che non si può vedere. Volevo mettere tutto questo in quella scena: un momento in cui Nick è bloccato, non può andare avanti. Lien lo capisce e gli chiede cosa sta succedendo, allora lui mente dicendo che va tutto bene.
Lei ha lavorato con grandi direttori della fotografia come Dante Spinotti, Dion Beebe o Emmanuel Lubezki. Cosa ha apportato di nuovo Stuart Dryburgh a Blackhat?
Per me trovare un direttore della fotografia è esattamente come fare il cast a un attore. Cerco di capire qual è la sua visione, cosa può aggiungere alla mia. Compongo io stesso le mie inquadrature: con l’operatore, l’uomo del dolly e il tecnico delle luci siamo molto molto uniti, con molti di loro lavoriamo insieme dai tempi di Heat e Insider. Io sto alla macchina da presa per quasi tutto il tempo in cui giriamo, abbiamo un rapporto molto viscerale, anche perché di solito lavoro con più macchine simultaneamente: dobbiamo essere tutti affiatati e molto coordinati. Con Stuart Dryburgh avevo già lavorato in Luck, ha una delicatezza nell’usare la luce che mi serviva, oltre che una grande sensibilità per il colore. Il problema di girare a Hong Kong è che ci sono così tanti colori primari, quando lavori in digitale ognuno di essi assume una specificità così forte che sembra si trasformi in Fruit Loops (famosi cereali colorati, ndr.). Non è facile da spiegare perché sui mei set non funziona che il regista dirige, il direttore della fotografia illumina e l’operatore gira. Lavoriamo in maniera organica, siamo una famiglia in cui ognuno condivide le proprie competenze con gli altri.
Qual è il suo rapporto con la tecnologia?
Ho un rapporto molto pratico, uso i mezzi che ho a disposizione come strumenti per ciò di cui ho bisogno. Al contrario di quanto molti pensano ad esempio non sono un paladino ideologico del digitale contro la pellicola, uso quello che penso sia il mezzo migliore per la visione che sono interessato a mostrare. D’altro canto come persona ammiro la genialità di alcune trovate tecnologiche. Con un microscopio elettronico oggi si può guardare all’interno di un chip e capire come riprodurlo con una stampante 3D. Il genio dietro tutto questo mi affascina. Potremmo dire che ho un’ammirazione estetica per la tecnologia, ma non ne sono ossessionato.
Cosa pensa dell’attacco informatico subito recentemente dalla Sony?
La prima reazione è stata profonda tristezza, perché molti dei soggetti colpiti sono miei amici. Ho fatto due film con loro, Ali come regista e Hancock come produttore. Come intrusione, da una scala da uno a dieci, potremmo dire che è stato un quattro, non un livello altissimo di irruzione. In realtà ci sono stati tentativi di attacco ben più pericolosi in questi anni, e molti sono stati sventati da Washington grazie anche al Cyber Intelligence Sharing and Protection Act introdotto da Mike Rogers.
Dopo più di trent’anni di carriera come definirebbe la sua carriera?
Imprevedibile. Ognuno ha un suo metodo di lavoro, io chiedo molto a me stesso, cerco sempre di essere preciso nel programmare i miei progetti futuri mente ad esempio sto montando un film, e puntualmente fallisco perché mi immergo totalmente nel progetto che sto facendo, perdendo lucidità. Spesso capita poi che la mia attenzione venga attratta da altre storie: con Lowell Bergman stavo progettando ad esempio un film che avrebbe visto Al Pacino come protagonista, una storia incentrata su un mercante d’armi. A un certo punto però Lowell mi sono interessato alla storia personale di Lowell ho abbandonato quel progetto, così ho scritto una sceneggiatura con Eric Roth che poi è diventata Insider. Non so prevedere i miei film futuri, posso dire però che mentre alcuni registi trovano il processo delle riprese doloroso io al contrario lo amo. Girerei un lungometraggio dopo l’altro, non lo faccio così spesso quanto vorrei.
Il suo cinema è amato soprattutto per le grandi scene d’azione. Qual è il suo segreto per realizzarle?
L’azione per me non è azione, è danza, coreografia. Nel 1974 ero in Mozambico, dove la guerra civile aveva distrutto quasi tutte le infrastrutture, e lasciato molte rovine. Dentro una hall di un vecchio teatro di danza incontrati un coreografo che stava provando con dei ballerini. Riuscii a capire la storia che stavano raccontando soltanto osservandoli danzare, perché la danza deve sempre avere dentro una storia. Lo stesso vale per me e l’azione. Nella prima sequenza di Ali, prima dell’incontro con Sonny Liston, ho sintetizzato sette differenti momenti della vita del pugile apposta per arrivare all’incontro. Devo prima costruire una storia per poter poi arrivare all’azione.