Menocchio, un ribelle che parla all’oggi: Alberto Fasulo al Locarno Festival 2018
Italiano nel concorso della manifestazione ticinese.
Alberto Fasulo: un regista a chilometro zero. Potremmo definire così uno dei più significativi documentaristi del panorama nazionale. Friulano di San Vito al Tagliamento, in quella zona ha ambientato anche il suo ultimo film, Menocchio, oltre al toccante Genitori, ma anche il suo più noto TIR, vincitore del Marc’Aurelio come miglior film al Festival di Roma.
Presentato in concorso, unico italiano, al Locarno Festival 2018, Menocchio racconta di un ribelle vecchio e cocciuto. Siamo alla fine del ‘500, nei monti del Friuli, nel pieno della risposta idelogica violenta e dogmatica della Chiesa Cattolica seguita alla Riforma Protestante. Menocchio è un autodidatta che decide di ribellarsi, non vuole patteggiare o fuggire, seguendo il consiglio degli amici e famigliari, ostinandosi ad affrontare il processo per eresia. È stanco di soprusi e tasse, in quanto uomo è genuinamente convinto di essere uguale a vescovi e inquisitori, persino al Papa, sperando nel suo intimo di riuscire a riconvertirli al suo ideale di povertà e amore.
“Per me non cambia rispetto ai lavori precedenti”, ci ha raccontato in un incontro a Locarno. “Si tratta sempre di raccontare una storia e filmare un personaggio. Forse la vera differenza è che ho dovuto costruirgli la realtà attorno. Per come ho lavorato non mi sento di aver preso una direzione opposta, ma di aver approfondito il mio sguardo. Su cento persone non c’erano più di due attori, lo stesso Menocchio non lo è.”
Da spettatore, vedendo il film, viene voglia di approfondire questa figura poco nota, quasi eroica.
Sono felice, vuol dire che può servire. Il primo dovere di un film è l’essere divulgativo, portare all’attenzione di più persone una storia, un personaggio e dei valori che incarna. Menocchio è come Sant’Antonio da Padova per il mio territorio, San Vito al Tagliamento. Ci sono pochi chilometri a dividere il suo paese da quello in cui fu processato. Le produzioni intorno a lui sono più regionali o locali, ma fin dalla scuola si fa del teatro su questo eretico.
Questi volti sembrano somigliare, con le loro abitudini e le loro dinamiche, a quelli di oggi, nonostante siano passati secoli.
Ho cercato di provare a comprimere il tempo. Un uovo lo era all’epoca come oggi, così come un uomo che ha paura. Ho cercato di trovare degli interstizi dove sfidare il tempo e cercare di raccontare una storia del Cinquecento come una storia urgente di oggi. Era questa la mia speranza, perché trovo abbia un’attualità potente, addirittura rovesciata, perché oggi è il papa stesso che si avvicina a una visione menocchiana. La sfida era importante e, al di là di tutto, andava affrontata, poi il risultato lo si vedrà alla fine.
C’è un’emozione nel film che rimanda molto anche alla contemporaneità: la paura. La paura di allontanarsi dal pensare comune e tradizionale.
Certo, è una delle chiavi i contemporaneità del film e aggiungerei la riflessione che ognuno di noi deve fare nello scegliere la propria posizione, ideologica e politica intorno alla discussione, qualsiasi essa sua. Io parlo per accondiscendere o perché sento e provo quello che sto dicendo? Oggi ci nascondiamo sempre di più dietro degli slogan, mentre credo profondamente che se fossero sviscerati ci troveremmo molto più d’accordo su questi temi universali.
La sua idea di cinema quindi è di togliere delle maschere, mettere a nudo i personaggi?
Sono molto contento che nei miei film mi chiedano come hanno fatto a recitare così naturalmente dei non attori. La risposta è perché non recitano, ma lo sono. Il mio lavoro, e il mio piacere, è di metterli in una condizione di esistenza. Quando vedo che gli attori sono a loro agio, capisco che è il momento di incominciare a filmare. Ho visto 3000 persone per il casting, nella valle da cui veniva Menocchio, perché venissero dal suo stesso paese e parlassero una variazione di friulano, il clautano.
Cosa pensa del rapporto con la spiritualità e la religiosità in quelle terre, ieri come oggi?
È una questione privata, come vuole difendere Menocchio. Invece è sempre più stata condivisa nella collettività, perché devi essere incasellato, rientrare in determinati canoni, codici e valori che, al di là di te, devono regnare sulla tua appartenenza. Molte volte la cosa provoca delle contraddizioni folli, basta aprire un giornale, non serve Facebook. Io invece credo che la spiritualità debba essere una cosa privata e che gli uomini si debbano confrontare proprio sulla pratica dei propri valori. Allora non si è più umani o musulmani, ma tu e io.
In un’epoca in cui si dice: la soluzione è aggregarci, lei propone come soluzione la responsabilità individuale, per superare il rischio dell’assoluzione collettiva.
Credo sia una cosa necessaria per tutti noi. Il fatto di demandare ad altri la responsabilità ci ha portato a vivere delle contraddizioni enormi, anche le istituzioni sono state coinvolte. Posso essere cristiano, buddista o quello che sia, ma sento questo e mi comporto di conseguenza. Nel momento in cui c’è invece un’istituzione che ti obbliga ad avere una visione succede che si lavora su più livelli.
Questa è la bellezza del cinema, quando non è didascalico. Non citare la politica contemporanea, ma riferirsi, come stiamo facendo, a situazioni molto attuali.
Per me non c’è nessuna azione che non possa essere ritenuta politica, nel senso lato del termine. Il nostro parlare stesso lo è e nel cinema è grandioso come delle immagini quanto mai astratte in sé hanno una forte connotazione di visione del mondo.
Lei rappresenta anche il locale come rappresentazione dell’universale, raccontando la sua terra.
L’universale è formata da tanti locali. Credo nella personalizzazione, nell’individualizzazione delle cose, non per differenziarsi, ma per confrontarsi.
Si parla molto di cinema del reale, mi sembra da quello che ha detto e dai film che ha fatto che a lei non interessino confini o definizioni. Il cinema è uno sguardo, a prescindere da quanto sia vero?
Per me Menocchio è tutto vero, è tutto successo realmente. È girato in piani sequenza di mezz’ora per dare la possibilità ai miei attori di vivere le situazioni. Il concetto di vero qui non si riferisce al fatto che l’attore abbia realmente mangiato o no in quel momento, ma il proprio rapporto con la realtà. Menocchio è un film che vuole dialogare con la realtà di oggi, non voglio fare il regista da grande, voglio fare Menocchio, e lo faccio. Voglio parlare di un problema che oggi sento utile in questa confusione. Ho due figli e come individuo nel mondo sento il bisogno di dire qualcosa. Mi viene data la possibilità di farlo attraverso il cinema, ringrazio chiunque me l’abbia dato e lo faccio.
Menocchio, dopo la presentazione applaudita al Festival di Locarno, uscirà prossimamente nelle sale italiane.