La senilità di un irresistibile Jean Rochefort: Philipe Le Guay ci racconta Florida
La vecchiaia raccontata con classe e coraggio dal grande attore francese.
Le peregrinazioni di un irresistibile Fabrice Luchini in Molière in bicicletta hanno consolidato l’etichetta di regista di attori per Philippe Le Guay, che ora torna al cinema a partire dal 5 maggio con Florida, un altro trionfo attoriale di un’icona del cinema francese come Jean Rochefort.
Il suo Claude, ottantenne imprenditore in pensione, ha costantemente dei vuoti di memoria, di confusione, non volendo ammetterlo. La sua figlia maggiore, interpretata dalla sempre convincente Sandrine Kiberlain, l’ha sostituito in fabbrica e deve confrontarsi quotidianamente con le sue bizzarrie, come la voglia di prendere un aereo e andare a trovare la figlia minore in Florida.
Abbiamo incontrato Philippe Le Guay a Parigi, nel corso dei Rendez-vous del cinema francese di Parigi.
“La mia intenzione era di realizzare un ritratto di Jean Rochefort, ma il cinema non permette di catturare semplicemente una pennellata, un momento nella vita, come si può permettere un pittore. Ho voluto raccontare una storia sulla memoria, e sulla sua assenza, quando la coscienza fluttua liberamente. “
Senza Jean Rochefort, quindi, il film non ci sarebbe stato?
È proprio così. Ricordo di avergli mandato la sceneggiatura in gennaio, poco prima che andassi in India per due settimane, il che aveva reso molto ansioso Jean. Mi chiedeva se ero sicuro di andare, visto che lui non ama viaggiare, l’unico posto in cui va di frequente è proprio l’Italia. Dopo dieci giorni isolato, ho riacceso il telefono e trovato le chiamate in cui mi diceva che aveva letto la sceneggiatura e che era sul punto di accettare. Ecco, da quel momento alla definitiva decisione mi ha fatto patire per sei mesi.
Mancava qualcosa a quella stesura?
Ero troppo realistica, lui voleva più fantasia, elementi magici e poetici che potessero avvicinarlo a quel personaggio. Ho sempre pensato fosse un re che ha perso il suo regno. Quando torna nella sua cartiera, dopo 15 anni, non riconosce nessuno, vede solo facce nuove e processi industriali che non comprende: è un momento molto toccante, aveva perso il suo impero.
Come mai l’idea della Florida come luogo di arrivo per il protagonista?
Mancava movimento nel film fino a che abbiamo avuto l’idea di ambientare la storia all’interno di un aereo diretto in Florida, il viaggio è la metafora migliore. Quando andiamo a vedere un film siamo invitati a un viaggio. L’idea della Florida è legata al suo essere un posto dove è sempre estate, fra palme, sole e mare caldo; un posto in cui niente ti ferisce, una metafora del cinema, che usiamo per proteggerci dalla realtà piena di violenza e conflitti, in cui invecchiamo e moriamo. Ma quando andiamo al cinema siamo protetti dal film e dal cinema, un posto in cui nessuno può farci del male, a parte le emozioni dei personaggi sullo schermo. La Florida diventa il rifugio finale per Jean Rochefort, vuole visitare la figlia per qualche motivo, ma non vi dico quale, fa parte della tensione legata al film, visto che qualcosa è successo.
Qual è il segreto della recitazione di Jean Rochefort?
È capace di iniziare una scena in una tonalità leggera e di finirla, senza che alcuna percepibile cesura, su note drammatiche e commoventi. È un attore pieno di colore, come gli abiti che indossa nel film, e la cosa più bella per me è stata vederlo appassionarsi al progetto e la sua tenerezza nei confronti di Sandrine Kiberlain, la figlia nel film.
Come si lavora con icone come Fabrice Luchini o Jean Rochefort tenendone a bada il talento, senza farli esagerare?
Il paradosso è che iniziando come appassionato ad amare il cinema non mi interessavano molto gli attori, ma i registi e gli aspetti tecnici. Iniziando a fare film gli attori sono stati un territorio vergine per me, non avrei mai immaginato quale carica emotiva potessero portare a un film. In qualche modo mi sono trovato a fare un cinema che da giovane non avrei mai immaginato di fare. Oggi posso dire che gli attori sono la grande motivazione che mi spinge a fare questo mestiere.
Trovo sempre molto coraggiose le interpretazioni di attori molto anziani che portano sullo schermo personaggi fragili, spesso malati o vicini alla morte, creando una sovrapposizione commovente nello spettatore fra attore e ruolo.
Ha ragione. Riguardo a Jean la parola coraggio si adatta alla perfezione: ha lottato dando il suo meglio per il film, ma noi avevamo sempre la consapevolezza che stesse interpretando un personaggio, non se stesso. Non amo i registi che pretendono di rubare qualcosa agli attori, il film è una collaborazione.