"La mia fiaba sull'amore impossibile fra un fratello e una sorella": Valérie Donzelli ci parla di Marguerite e Julien
Dopo la presentazione a Cannes 2015 arriva nelle sale.

Valérie Donzelli è un’attrice che da alcuni anni si è ritagliata un posto di primo piano fra le nuove registe del cinema francese, grazie a film d’impronta profondamente autobiografica, come La guerra è dichiarata, il racconto della lotta della regista e del compagno e interprete nel film, Jérémie Elkaïm, per salvare il loro bambino malato gravemente. Un grande successo alla Semaine de la critique, poi una nomination all’Oscar e ai César nel 2012. Lo scorso anno l’arrivo a Cannes dalla porta principale, in concorso, con Marguerite e Julien, in arrivo ora nelle sale italiane per Officine Ubu. Abbiamo incontrato Valérie Donzelli a Parigi, in occasione dei Rendez-Vous di Unifrance.
La sceneggiatura di Jean Gruault, pubblicata nel 2011 come libro, venne scritta per Truffaut, che poi non realizzò il film. Cosa l’ha colpita leggendola?
L’ho letta con grande curiosità proprio per questo motivo. C’era qualcosa di entusiasmante nella scrittura romanzesca di Gruault, una grande epopea piena di sentimenti fra un fratello e una sorella. Una storia incredibile, soprattutto dopo aver saputo che è realmente accaduta, alla fine del XVI secolo. Non volevo raccontare di nuovo qualcosa che mi era accaduto, ma dirigere un adattamento e il fatto che fosse una vicenda reale mi ha dato la legittimità di farlo. Non avrei mai osato inventare una tale storia d’amore fra un fratello e una sorella, mi avrebbe destabilizzato, ma potevo partire da una verità, per poi raccontare un’altra storia.
Si è domandata come mai Truffaut non abbia poi realizzato il film?
Ho saputo dallo sceneggiatore, Jean Gruault, che non l’ha fatto perché all’epoca, negli anni ’70, il soggetto era di moda; Louis Malle aveva diretto Soffio al cuore (1971), che raccontava sempre di un incesto, inoltre l’ambientazione storica durante il regno di Enrico IV lo rendeva molto caro da realizzare.
Il film mescola il realismo del film in costume con un elemento anacronistico, quasi fantastico. Come ha lavorato sulla frammentazione e l’unione di questi aspetti, che spiazzano lo spettatore?
Per me non aveva senso fare semplicemente una ricostruzione storica, ci sono persone che lo sanno fare meglio di me. Una volta assodato che si trattava di un’interpretazione per forza di cose deformata della realtà storica, ci siamo trovati nell’ambito della fantascienza, cioè della riproduzione di una vicenda che non abbiamo conosciuto direttamente. Mi interessava proporre qualcosa di personale, in un tempo passato ma indeterminato, arrivando a immaginare un re con dei nobili, la pena di morte in vigore, ma anche gli elicotteri insieme ai carri e alle automobili. Mi sono concessa un viaggio in un mondo immaginario che è quello del racconto, dell’infanzia.
Un ritmo fenetico e la voce fuori campo movimentano la realizzazione della storia vera e propria, che è piuttosto tradizionale. Ha lavorato, più che altre volte, a due film diversi: uno durante le riprese e l’altro al montaggio?
Il film aveva questa forma, ma può essere che al montaggio ho la tendenza a riscrivere sempre la storia, senza allontanarmi troppo dalla sceneggiatura; il montaggio è anche un momento di scrittura. Sono due esperienze che si completano, il set e il montaggio, un continuo lavoro di messa in questione delle scelte fatte, fino a trovare il film.
Anche in questa storia, apparentemente molto lontana da lei, ha inserito delle cose intime, personali. È il suo modo di intendere il cinema?
È vero che è una maniera con cui esprimo le mie emozioni, non è sempre facile capire quali e fino a che punto; la questione è complessa, fare film è complesso. Non sai mai se riuscirai o meno, ci sono così tanti parametri, speri sempre vada bene, ma l’equazione è così difficile da risolvere. Ho l’impressione che, non avendo frequentato delle scuole di cinema, per me ogni film sia occasione di ricerca, di qualcosa di differente, in termini di budget, di ambizione. Nei miei film precedenti non avevo uno scenografo, le luci erano quasi solo naturali. Con Marguerite e Julien l’idea era anche quella di confrontarmi con la realizzazione di un film in maniera più tradizionale. La cosa bizzarra è che ho realizzato in maniera più classica un film che è il meno classico che ho fatto.
Aveva timore di affrontare l’incesto, uno degli ultimi tabù della società occidentale?
Il soggetto è stato un ostacolo anche per me, perché mi confrontavo con qualcosa che non conoscevo, anche se in fondo l’incesto è la storia di un amore impossibile, come quello fra un fratello e una sorella. La difficoltà del film è che i due amanti non potevano parlarne fra di loro, visto che una volta espresso il loro amore attraverso le parole avrebbero dovuto affrontarne la portata, col rischio di interrompere la relazione.
Al fianco del solito protagonista dei suoi film, Jérémie Elkaïm, ha scelto Anaïs Demoustier, senza ritagliarsi un ruolo come interprete.
Fa parte della solitudine che ho provato durante le riprese, il fatto che Jérémie era protagonista, mentre io non recitavo, quindi ero fuori dai giochi, non ero al loro stesso livello, non potevo dirigere il film dall’interno come le altre volte. Riguardo ad Anaïs, ho avuto l’impressione di incontrare il mio alter ego, un incontro lavorativo fantastico.
Cosa pensa a distanza di tempo della reazione suscitata dal film a Cannes? È stato un momento molto intenso, immagino.
È strano perché sei contento di essere stato selezionato in concorso e presenti il film per la prima volta a un pubblico, ai giornalisti. Non sai mai quale reazione avranno e fa parte del gioco di Cannes, che vada bene o male, come successo a Marguerite e Julien.
Sa già quale sarà il prossimo film, magari una commedia?
Quello che so è che voglio recitarci.
È stata proprio dura non farlo in Marguerite e Julien, mi sembra di capire.
Sì, assolutamente. Amo fare i film perché mi piace recitare e penso che le cose siano legate, poi non sono molto a mio agio con la posizione del regista, solo nel suo angolo. Recitando prendi le cose con maggiore leggerezza, meno compresa nel ruolo di regista.