La generazione invisibile che ha subito gli anni di piombo: Noce e Favino su Padrenostro, in concorso a Venezia
Bambini che sentivano la paura in casa senza saperne il motivo, come accaduto a Claudio Noce che racconta in Padrenostro la storia autobiografica di un padre ferito dai terroristi durante gli anni di piombo. Ne ha parlato a Venezia insieme al protagonista e produttore Pierfrancesco Favino.

Onorato e felice. Così si era definito Claudio Noce, in occasione dell’annuncio che il suoi film Padrenostro, interpretato e prodotto da Pierfrancesco Favino, sarebbe stato presentato in concorso a Venezia 77. Aggiungiamo anche emozionato, adesso che è giunto il momento della prova di critica e pubblico presente al festival. Partendo dalla conferenza stampa, in cui Noce ha parlato della storia molto personale che ha raccontato, visto che il punto di vista di un bambino di 10 anni che vive il clima di tensione del terrorismo degli anni ’70 è proprio il suo, con il padre (Favino nel film) che subì un attentato da parte dei Nuclei armati proletari.
“È stato un percorso molto doloroso e lungo”, ha dichiarato il regista in conferenza stampa. “L’idea di rendere questo fatto realmente accaduto un film vive con me da tanto tempo, la difficoltà era come raccontarlo, il punto di vista che mi interessava. Avevo sicuramente un bisogno, anche se non di raccontare il fatto in sé, per molti anni quasi cancellato dalla mia famiglia, infatti fra i temi c’è anche la rimozione. Ho capito che potevo usare un punto di vista moto rigoroso, quello di un bambino, che poi siamo io, mia sorella e mio fratello, che ha veramente assistito alla scena. Io avevo due anni, mia sorella era a scuola, ma poi tutti e tre l’abbiamo ricostruita quella scena, fino a oggi. Il via è stato il momento in cui ho pensato di poterla raccontare come universale, non privata. È stato un momento non semplice, come regista e come uomo, a darmi il via per scriverla. È anche un film di pacificazione, con l’idea che quella generazione di invisibili abbia subito in maniera involontaria una guerra non capendo cosa stesse succedendo intorno. Parlo di me come dell’altra parte. Il titolo, Padrenostro, è legato alla necessità che ci fosse il padre, poi abbiamo unito le due parole e la cosa ha fatto fare un salto in avanti. Il peso del personaggio è vivo anche nell’assenza e volevo fosse ricordato nel titolo, in un film che è una lettera aperta di un figlio al padre”
Un viaggio che ha, come detto, coinvolto molto presto Pierfrancesco Favino, anche in veste di produttore. “Tre anni e mezzo fa con Claudio abbiamo preso un caffè”, ricorda l’attore, “mi ha raccontato questa storia e io vedevo me, il rapporto con mio padre, riconoscevo odori, sapori, silenzi, le stanze della mia casa, e mi si affacciava il pensiero di una generazione che quegli eventi non li ha vissuti, ma li ha subiti, ne è stata circondata. Quei bambini che si dava per scontato non sapessero, non sentissero, quando non era così, me lo ricordo anche da piccolo. Ci ha dato la possibilità di raccontare questo grande mistero che è il rapporto fra padre e figlio, che oggi forse fa paura per le emozioni forte e radicate che suscita, invece noi abbiamo fatto un film che voleva essere estremamente emozionante, per questo ho scelto di produrlo e credo in questa storia.”
Una storia in cui la violenza incombe e con essa la paura strisciante, tenuta nascosta con difficoltà dai genitori, soprattutto dal padre. “La paura è un tema che il film affronta in maniera profonda”, ha aggiunto Noce, “è uno dei motivi per cui ho voluto farlo. Il percorso di separazione che porta a superarla utilizza strumenti anche molto semplici, legati ai sentimenti e alle relazioni, al dialogo. Mi sono accorto facendo il film che nella mia famiglia nessuno aveva mai chiesto all’altro come stesse, nonostante avesse portato con sé questo peso per quarant’anni. Subimmo un abuso, la mia famiglia come mio fratello che vide morire una persona. Attraverso la paura il protagonista passa verso l’altra parte del fiume, cresce. Tutti abbiamo affrontato questo film in maniera dolce, mi hanno aiutato a raccontare una storia mia, cambiando le parole da private a universali.”
Ma cosa rende particolare questa storia rispetto agli altri sguardi su quegli anni tormentati? Secondo Favino, “di film sugli anni di piombo se ne sono fatti tanti, anche meravigliosi, ma noi volevamo raccontare l’infanzia, lo sguardo di un bambino. Il messaggio politico sta in questo, facciamo parte di generazioni che non hanno partecipato a grandi eventi storici e forse gli è stato anche impedito di dire come l’abbiano vissuti. I figli degli uni e degli altri hanno probabilmente condiviso i bisogni. Questo ci ha regalato una generazione laica, capace di vedere a quegli eventi in maniera diversa, non solo al cinema, ma anche in letteratura, che può affidarsi all’infanzia, è attraversata dall’emozione, non ha bisogno di razionalizzare, ma di essere inclusa. Noi ci sentiamo ogni tanto di dover chiedere il permesso, di scusarci di non aver fatto parte di quel momento storico. Sono un po’ stanco di questo. Il mio lavoro personale mi ha portato verso il mio di papà, verso quei momenti in cui avrei voluto superare quelle nuvole che sembravano incombere su di lui, cercare quella tenerezza che quella generazione non riusciva a dare. È un mondo che conosco, ora ringrazio, ma da bambino facevo fatico ad affrontare o a tentare di scalfire.”