Jonathan Levine racconta il suo 50 e 50
Lo scorso novembre, Jonathan Levine aveva accompagnato il suo 50 e 50 al Torino Film Festival. In quell’occasione lo abbiamo incontrato e intervistato.
Prima di entrare nella stanza dove ci aspetta, l’ufficio stampa italiano di 50 e 50 ci avverte che Jonathan Levine non sta benissimo. Ha la febbre, ci dicono.
A giudicare però dal dinamismo verbale e dal numero di parole che spara al minuto, non si direbbe. Il regista, che complice l'abbigliamento ultracasual dimostra anche meno dei suoi 35 anni, se ne sta accovacciato su una poltrona a gambe incrociate, e ci accoglie con un sorriso e molto entusiasmo.
Cominciamo col farci raccontare delle sue prime impressioni di fronte all’insolita sceneggiatura di 50 e 50 e di come l’abbia sviluppata. “La prima volta che ho letto il copione ho pensato si trattasse di un bellissimo film,” ha detto Levine, “e l’80% di quella sceneggiatura rimasto così com’era quando l’ho letto. Aveva un ottimo equilibrio tra risate e momenti drammatici, e i personaggi erano fantastici. Era incredibile pensare che si trattava della prima sceneggiatura scritta di Will Reiser, ma allo stesso tempo ti accorgevi che raccontava di un’esperienza diretta, di qualcosa che non potevi inventare ed era efficace proprio per il suo essere fortemente attaccato alla realtà. Ci abbiamo lavorato sopra assieme per un paio di settimane, c’erano dei piccoli cambiamenti che volevo apportare, specie nella fase iniziale. Il punto era che eravamo tutti d’accordo che le battute non dovevano essere troppo facili e artificiali ma nascere dai personaggi, in maniera quasi casuale. Sul set poi abbiamo fatto altri piccoli cambiamenti, perché gli attori hanno dato un grosso contributo creativo, ma comunque il copione di cui mi sono innamorato è sostanzialmente rimasto lo stesso.”
Proprio la compresenza di commedia e dramma in modi così insoliti è una delle caratteristiche del film, centrale per l’interesse del regista. A Levine, infatti, “piaceva l’idea che il film fosse diverso. Penso che se si fosse trattato di una commedia tradizionale l’avrei trovata noiosa, e che non sarei nemmeno stato bravo a dirigerla. Del film poi mi piace che catturi la vita vera, che ricordasse certi film di Hollywood che non vengono più girati e che amo molto. Sono entrato da subito in sintonia col tono generale, col fatto che ha come protagonista un giovane alle prese con una malattia che consideriamo da anziani.”
Ma la sfida di un film del genere è stata stimolante, per lui? “Beh, no,” risponde candidamente, “gli aspetti difficili sono stati più una fatica che altro. Le difficoltà maggiori comunque non erano mai nelle parti drammatiche, ma sempre in quelle divertenti. Come detto, non volevamo inventarci cose strane per far ridere, volevamo che l’umorismo scaturisse dai personaggi. Al centro di tutto il processo c’è Seth Rogen, tutto nasce dalle interazioni con lui. A volte ci siamo trovati di fronte a delle scene che potevano facilmente dare spazio alla risata, ma sapevamo che non sarebbe stata la cosa giusta da fare, e quindi ci siamo limitati”
È comunque insolito che si produca una “commedia sul cancro”, e Levine riconosce alla produzione di aver creduto in un progetto rischioso e di averlo supportato in tutto e per tutto. “Certo, se si fosse trattato di un film da 20 milioni di dollari forse sarebbe stato diverso,” riconosce il regista, “ma tutti in questo film hanno lavorato al minimo salariale, non lo facevano per denaro, Seth Rogen non si è fatto pagare quanto fa di solito. E il fatto che avessimo un budget di 6-7 milioni di dollari, quindi basso, ci ha aiutato ad avere una maggiore libertà.”
E, oltre al fatto di essersi accontentati di compensi minori rispetto al solito, Levine riconosce ai suoi attori numerosi meriti per la riuscita del film: “Penso che tutti abbiano colto perfettamente il tono del film. Sul set c’era un’atmosfera rilassata, amichevole e che lasciava spazio all’inventiva. Joseph Gordon-Levitt e Seth Rogen avevano un’intesa così forte che non c’era bisogno di molto altro e Seth, essendo anche uno sceneggiatore, capiva perfettamente le esigenza della scrittura. E il resto del cast è stato scelto così bene che le cose sono andate lisce da sole. In questo film ho lavorato con attori meravigliosi, intelligenti, in grado di comprendere al volo: non tutti gli attori sono così intelligenti,” chiude, sornionamente polemico.
Per Levine la grande responsabilità che il girare un film come 50 e 50 portava con sé era quello di “essere fedele al suo cuore, quello della storia quello di una persona che di fronte alla possibilità della morte riesce a cambiare in meglio la sua vita: volevamo mostrale l’impatto della sua malattia su sé stesso e sulle persone che gli stanno vicino.
E grande era la responsabilità nei confronti della persona che ha scritto il copione.”
Ma il regista, per quanto giovane, sa anche che il pubblico va in qualche modo assecondato, e ci ha raccontato di aver modificato il finale originale dopo un primo test screening che aveva dato certe indicazioni: “Il finale originale era con Kyle che insegnava ad Adam a guidare, ma abbiamo capito che il pubblico voleva concentrarsi sulla storia d’amore con la dottoressa interpretata da Anna Kendrick.”
Se però gli chiediamo quale sia il momento del film che ama di più, Jonathan Levine dimostra di avere idee ben chiare: “È la scena in cui Adam esce dall’ospedale dopo aver fumato erba durante la chemio, quando cammina per il corridoio, con la musica di sottofondo, lui è strafatto e vede gente che piangere, morti. È una strana combinazione di toni: è una scena divertente, è fottutamente deprimente, è bizzarra, ma alla fine è solo molto reale.”
Già, l’erba. Che finora, da All the Boys Mandy Lane a The Wackness, è qualcosa sempre presente nei film di Levine. Se gli chiediamo quale sia il fil rouge che leghi tre titoli tanto diversi fra loro, Levine risponde: “I don’t know man. Sono tutte storie su gente giovane, sulla loro vita e le difficoltà del crescere. Tutti e tre i miei protagonisti finora fumano erba. Ma lo zombie no.”
Lo zombie in questione è quello protagonista del prossimo film di Levine, Warm Bodies, storia d’amore tra un giovane zombie e la fidanzata di una delle sue vittime che è in fase di post-produzione.
Quando, facciamo notare a Levine che uno zombie strafatto, oltre che innamorato, poteva essere interessante, ci risponde sorridendo: “già, era davvero una buona idea. Però è troppo tardi.”
Da una cancer comedy ad una zombie romance, quel che è certo è che Levine non ama essere facilmente incasellato: “Mi è sempre piaciuto fare cose differenti, altrimenti mi annoio,” conferma, in chiusura del nostro incontro. “Mi piacerebbe cimentarmi con produzioni più grandi, ma non vorrei rimanerci incastrato dentro. Hollywood vuole che tu faccia la stessa cosa a ripetizione, mentre io voglio cambiare e raccontare le storie che mi piacciono. Mi piacciono film che combinano elementi diversi, che non siano commerciali ma che piacciano alla gente.”