Jean-Pierre e Luc Dardenne raccontano il mondo senza solidarietà di Due giorni, una notte
Il film con Marion Cotillard presto nelle sale italiane.

Il loro nuovo film, Due giorni, una notte, tra i grandi e discussi protagonisti dello scorso Festival di Cannes, uscirà a Roma e a Milano questo fine settimana, e nel resto d’Italia il 20 novembre.
Composti, eleganti e cortesi, Jean-Pierre e Luc Dardenne sono stati a Roma, dove ci hanno parlato del film: interpretato da Marion Cotillard e, come Il ragazzo con la bicicletta, ambientato in una (per loro) insolita estate.
Ma i fratelli belgi negano che, con questi ultimi due film, sia cambiato qualcosa nel loro cinema.
Anzi, per loro non è cambiato proprio nulla, come spiega bene Luc: “Certo, nel Ragazzo con la bicicletta abbiamo per la prima volta utilizzato la musica, ci stiamo appoggiando a attori famosi, e stiamo girando in estate: ma non è cambiato nulla nel nostro metodo di lavoro né nell’approccio al cinema. In questo caso abbiamo scelto di lavorare l'estate perché la stagione era più funzionale alla storia: la protagonista usciva da una depressione e non volevamo che si nascondesse sotto agli abiti, e ci piaceva poter mostrare persone che lavoravano, che svolgevano il loro secondo lavoro, all'esterno. Quanto a Marion, abbiamo deciso semplicemente deciso di farla entrare nella nostra famiglia, volevamo fosse una dei nostri.”
Nel film, la Cotillard è Sandra, una donna che deve cercare, nell’arco di tempo indicato dal titolo, di far cambiare idea ai colleghi della piccola fabbrica di pannelli solari dove lavora che, di fronte all’aut aut del padrone, hanno votato il suo licenziamento pur di mantenere un bonus di 1000 euro in busta paga. “L’idea per il film nasce da una notizia letta una decina di anni fa, che raccontava di una persona licenziata con il consenso dei colleghi da una squadra di lavoro della Peugeot, perché la sua debolezza e le sue assenze non permettevano al suo gruppo di vincere i premi di produzione che invece venivano ottenuti delle altre squadre,” ha raccontato Jean-Pierre. “Abbiamo poi scoperto che non era un caso isolato, che situazioni analoghe stavano avvenendo con frequenza. Ma quello che ci ha toccato davvero è la mancanza di solidarietà che si evince da queste storie, ed è proprio questo che volevamo raccontare.”
I registi, poi, hanno tenuto a precisare che l’aver letto della vicenda su un giornale non toglie il fatto che potrebbe essere giunta loro per esperienza diretta: “Si tratta di qualcosa che sarebbe potuta accadere anche a persone che conosciamo direttamente,” presisa Jean-Pierre. “Noi non viviamo chiusi nel mondo autoreferenziale del cinema, che poi in Belgio non esiste, ma viviamo circodati da persone reali e nel mondo reale. In un posto come questo…,” chiosa poi, alludendo ironicamente all’elegante teatro del loro incontro con la stampa, lo storico Palazzo Torlonia nel centro di Roma.
Ma, tornando alla storia che racconta Due giorni, una notte, i registi hanno difeso la scelta di aver semplicemente fotografato una realtà, lasciando i protagonisti sempre dentro la logica binaria della scelta imposta loro dal datore di lavoro: “Noi volevamo mostrare Ia situazione attorno a una donna debole, fragile, che non sta bene, che all'inizio non ha fiducia in sé stessa e che cambierà incontrando colleghi che le mostrano solidarietà,” ha sottolineato Luc. “Avremmo potuto immaginare qualcosa di diverso, per quanto difficile in un contesto del genere, ma avremmo potuto, però lasciamo che la terza via sia quella che lo spettatore si può sforzare a immaginare. Noi abbiamo solo voluto realizzare una fotografia di una situazione che mostra la mancanza di solidarietà, e un padrone che proprio su quello fa leva. La solidarità si sviluppa più facilmente quando i soldi ci sono: se invece vivi con 1200 euro al mese, sei sempre immerso nella paura sociale, e i 1000 euro di premio sono più che appetibili. Senza contare che c'è sempre l'alibi di dire "non sono stato io, è stata la scelta di un padrone".”
Per i Dardenne, poi, a contare era l’esperienza della protagonista, della Sandra interpretata da Marion Cotillard, che hanno definito “un’esperienza di liberazione e trasformazione”.
“Una trasformazione che ci auguriamo possano provare anche gli spettatori,” continua Luc, “o comunque che stimoli una discussione, e un mettersi in gioco nelle proprie convinzioni. Inoltre, raccontare un personaggio come quello di Sandra era per noi la possibilità di fare un elogio della fragilità e della debolezza, qualcosa che la cultura e il cinema di oggi sembrano rifiutare.”
Altra cosa che, secondo i Dardenne, il cinema di oggi rifiuta è la misura e la distanza. “Per girare il film abbiamo provato per cinque settimane,” racconta Jean-Pierre, “e abbiamo faticato molto a trovare la chiave giusta per una scena chiave, quella del pianto di Sandra. Non capivamo bene come farla, poi abbiamo capito che la soluzione giusta era mostrare la protagonista da lontano, con le spalle alla macchina da presa: perché per mostrare l’emozione, a volte è necessario fare un passo indietro, perché più entriamo nelle cose, meno le vediamo. Per noi è fondamentale trovare la giusta distanaza e non scadere nella pornografia, o nell’isterizzazione delle situazioni: qualcosa che il cinema di oggi fa troppo spesso.”