Intervista allo scrittore texano di culto Joe Lansdale
Grazie a Letterature, un festival molto affascinante che si svolge a Roma da 7 anni e che celebra il connubio scrittura-lettura con la presenza di autori che incontrano il pubblico e attori che leggono i loro testi a Massenzio, abbiamo incontrato una delle voci più originali e prolifiche della letteratura di genere, Joe R. (per Richard...

Intervista a Joe Lansdale
Grazie a Letterature, un festival molto affascinante che si svolge a Roma da 7 anni e che celebra il connubio scrittura-lettura con la presenza di autori che incontrano il pubblico e attori che leggono i loro testi a Massenzio, abbiamo incontrato una delle voci più originali e prolifiche della letteratura di genere, Joe R. (per Richard) Lansdale.
Amatissimo nel nostro paese, che ha edito ancor prima che in America il suo ultimo romanzo (“La ragazza dal cuore d’acciaio”, Fanucci), questo espansivo, simpaticissimo cinquantaseienne texano ha pubblicato oltre 30 romanzi, diverse raccolte di racconti, scritto per serie animate tv, sceneggiato fumetti, e ha creato un suo stile personale di arti marziali riconosciuto a livello internazionale.
I suoi romanzi sono spesso ibridi di vari generi, e spaziano dall’horror al western horror al noir con la bellissima serie di Hap and Leonard, due scalcinati detective per caso che nel profondo Sud degli Stati Uniti si scontrano col razzismo, la violenza ai minori e agli omosessuali.
A volte penalizzato dall’etichetta splatter-punk o pulp, “ma io voglio essere solo lansdaliano”, Lansdale inserisce spesso tra le righe delle sue storie godibili e divertenti temi forti e sentiti. Del resto non ha mai fatto mistero delle sue posizioni liberal e anti-Bush. Parlarci è un vero piacere, come già sapevamo da anni di contatti via email e tramite MySpace. Pubblichiamo qui la versione integrale della nostra intervista, sicuri di fare felici molti dei suoi appassionati lettori.
D.C.: Cosa leggevi da ragazzo? Gli EC Comics, libri d’avventura?
J.L.: Sì, leggevo gli EC Comics, i libri d’avventura, guardavo i B movies, e naturalmente ho letto scrittori come Edgar Rice Burroughs. In seguito ho letto Mark Twain, Ray Bradbury, Flannery O’Connor, Hemingway, Fitzgerald, Philip José Farmer, un sacco di autori diversi.
D.C.: Hai sempre saputo di voler diventare uno scrittore?
J.L.: Sempre. Non ricordo un periodo in cui non abbia desiderato fare lo scrittore. Non appena ho scoperto le matite ho desiderato scrivere.
D.C.: Ti ricordi la prima storia che hai mai scritto, magari a scuola?
J.L.: Era una poesia sul mio cane, la prima cosa che ho mai scritto, una poesia sul mio cane.
D.C.: Aveva qualcosa di horror?
J.L.: No no, era solo una poesia su di lui, non me la ricordo ma è la prima cosa che abbia mai scritto. Avevo probabilmente 7 o 8 anni. Ma il primo racconto che ho mai scritto era un racconto dell’orrore.
D.C.: I tuoi genitori hanno incoraggiato questa tua passione?
J.L.: Sì, lo hanno sempre fatto. Mio padre era analfabeta e mia madre aveva a malapena la licenza elementare ma mi hanno sempre sostenuto.
D.C.: Il Texas è il paesaggio privilegiato delle tue storie, è impossibile immaginarle in un altro posto. E’ un po’ come il Maine per Stephen King, con la differenza che i tuoi mostri sono quasi sempre umani, è vero?
J.L.: Sì, penso di essere più influenzato dalle cose terribili che gli esseri umani si fanno l’un l’altro piuttosto che dai mostri. Questo nuovo libro, “La morte ci sfida”, è più nella classica tradizione dei mostri, ma io mi vedo sempre come uno che scrive di persone vere. A volte per me i mostri sono una metafora, o il modo in cui si manifesta la realtà attraverso queste assurde situazioni.
D.C.: Quand’eri bambino cos’erano le cose che ti spaventavano? Mostri immaginari o altro?
J.L.: Quando ero bambino amavo i mostri e l’horror, non ricordo di esserne stato spaventato quanto piuttosto eccitato. Quando sono cresciuto ha iniziato a spaventarmi la gente.
D.C.: Nonostante i tuoi libri siano molto cinematografici, pochi sono diventati film. Perché? Puoi dirmi qualcosa del tuo rapporto con Hollywood?
J.L.: In realtà Hollywood ha opzionato un bel po’ dei miei libri e un po’ delle mie storie, e qualcuna è stata anche realizzata: hanno realizzato ad esempio Bubba HoTep e un episodio dei Masters of Horror. Ridley Scott ha di recente comprato “L’anno dell’uragano”. “Freddo a luglio” dovrebbe diventare un film. Ho scritto io il copione per “L’anno dell’uragano”, anche se non è detto che lo usino. Ne ho scritto uno per “La sottile linea scura”, che dovrebbe farsi, e anche “In fondo alla palude” dovrebbe diventare un film diretto da Bill Paxton. Ah, e anche dai due libri del “Drive In” dovrebbe farsi un film. Sto scrivendo adesso la sceneggiatura insieme a mio fratello.
D.C.: Sembra però che ti abbiano scoperto tardi nella tua carriera...
J.L.: In realtà sono stato scoperto presto, fin dagli anni Ottanta. Le prime cose opzionate risalgono al 1986, da un sacco di anni ci sono mie cose di cui hanno comprato i diritti, da anni e anni scrivo sceneggiature, ho scritto per la serie animata di Batman in tv. Così in realtà mi hanno scoperto fin dagli anni Ottanta, è solo che ho fatto un sacco di soldi ma non ho visto molti film…
D.C.: Una delle tue migliori creazioni è la strana coppia costituita da Hap e Leonard, una specie di sottoproletari Crockett e Tubbs. Le loro storie sono piene d’umorismo ma al tempo stesso sono le più violente e disperate che tu abbia scritto. E’ la tua visione del mondo o ne è solo il lato più pessimista?
J.L.: Non mi è mai piaciuto definirmi un pessimista, come non mi è mai piaciuto definirmi un ottimista. Dico sempre che sono un ottimista ferito. E penso che in qualche modo le loro storie rappresentino tutte le cose brutte del mondo. Loro le affrontano come meglio possono, penso sia una metafora per quello che faccio io. Vedi tutte queste cose orribili, queste guerre, e l’unica cosa che puoi fare è affrontarle come meglio puoi, mantenere il tuo senso dell’umorismo, provare a vivere la tua vita secondo il tuo codice morale al tuo meglio. E in effetti uscirà un nuovo romanzo di Hap e Leonard in contemporanea con l’edizione italiana l’anno prossimo. Si intitola “Vanilla Ride”.
D.C.: A volte nei tuoi libri scrivi di cose che sono davvero terribili da leggere, come pedofilia e cose del genere, e sei estremamente esplicito e violento nel farlo. Perché senti il bisogno di farlo in questo modo?
J.L.: Vedi, io sono cresciuto con fiction di tutti i tipi, e ne faccio di tutti i tipi. La gente tende a ricordarsi di più le cose esplicite e violente piuttosto di quelle che non lo sono, ma il nocciolo della questione è che anche se sono cresciuto con queste cose non sono mai andato in giro a torturare la gente, o a far loro brutte cose. A volte quel che cerco di fare è essere un reporter sociale sotto le vesti dell’intrattenitore. Non voglio prendermi troppo sul serio, mi piace pensare a me stesso come uno che scrive per divertire se stesso, ma al tempo stesso non ti nascondo che i temi sociali e politici sono importanti per me, e cerco di metterli nei libri senza renderli troppo pesanti. A volte mi riesce, a volte no.
D.C.: Dimmi qualcosa su questo tuo ultimo libro che in realtà è il terzo, “La morte ti sfida”, dove il Texas incontra il Western e l’horror. E’ stato un divertissement per te?
J.L.: E’ un libro che ho scritto all’inizio della mia carriera, per puro divertimento. L’ho scritto perché avevo sempre voluto fare un western horror, avevo visto alcuni western horror al cinema, come Curse of the Undead, e poi leggevo i fumetti di Jonah Hex e avevo sempre desiderato scrivere qualcosa in questo filone. Avevo 15 giorni liberi e in 15 giorni l’ho scritto, e in seguito ne ho tratto una sceneggiatura in altri 15 giorni, e questa è stata opzionata per il cinema ben 11 volte. Alla fine sono stati venduti i diritti cinematografici ma il film non si è mai fatto. La storia è diventata un fumetto, vive di vita propria, ed ha anche ispirato altre due storie sullo stesso personaggio. Ma per me è come se fosse il mio cartoon nell’intervallo tra i due film principali.
D.C.: Quanto tempo impieghi per scrivere un romanzo?
J.L.: Dipende, per ognuno ci vuole il tempo che ci vuole, ma in genere tra i 3 mesi e un anno, a seconda del libro. “Tramonto e polvere” ad esempio mi ha impegnato per 11 mesi, “La morte ti sfida” l’ho scritto come dicevo in 15 giorni. Ma è una cosa molto rara. “In fondo alla palude” mi ha preso 4 mesi.
D.C.: Hai scritto romanzi, fumetti, cartoni… tutti questi diversi media ti propongono sfide diverse come narratore o ti ci avvicini nello stesso modo?
J.L.: Sì, sono sfide diverse, anche se in un certo senso le affronto tutte nello stesso modo: con entusiasmo, oppure non le faccio per niente. Il fatto è che quello che cerco di fare, se faccio qualsiasi cosa in veste di scrittore, è mostrare alle altre persone che non devi sempre essere serio ma non devi neanche per forza essere sempre divertente. A volte puoi fare entrambe le cose contemporaneamente, a volte ne fai una e a volte un’altra. Un lettore dovrebbe essere sorpreso quando si avvicina a uno scrittore. Dovrebbe poter dire “stavolta mi sono proprio divertito un mondo”, ma la volta successiva “mi sono divertito, però mi ha fatto pensare, è stato interessante”. Questo è quel che cerco di fare io, cerco sempre di far deragliare le aspettative.
D.C.: A volte leggendo i tuoi libri mi sono ritrovata a ridere ad alta voce perché usi delle metafore davvero divertenti. Da dove hai preso questa caratteristica?
J.L.: Il fatto è che in Texas la gente parla davvero in quel modo, io ho solo esagerato questo tipo di iperbole. La gente nell’East Texas usa un sacco di metafore e similitudini per spiegare le cose, e questo mi è sempre piaciuto, quindi l’ho portato all’estremo.
D.C.: Ti consideri in un certo senso, per via delle tue origini, uno scrittore-operaio?
J.L.: Sì, certo, mi considero più che altro uno scrittore-impiegato, mi sono sempre sentito in quel modo anche se non lavoro più nel settore. Faccio un lavoro che mi piace, sono una delle persone più fortunate al mondo, penso che un sacco di scrittori si prendano troppo sul serio. E’ vero che è un duro lavoro, ma certo è molto meglio che lavorare in una fabbrica di sedie: un lavoro che ho fatto davvero.
D.C.: Pensi che esistano adesso film che potrebbero essere proiettati in double-bill in qualche drive-in o credi che siano troppo sofisticati?
J.L.: Molti film di oggi sono belli e divertenti ma non credo che quel genere di film esisterà mai più. Perché un tempo venivano fatti senza alcuna pretesa, erano messi insieme velocemente, e a volte come nel caso di Roger Corman venivano fuori dei film molto coinvolgenti. Molti di quei film oggi sono datati e non sono più così interessanti, ma hanno ispirato molti. Non solo registi, ma scrittori e gente di tutti i tipi nel mondo dello spettacolo.
D.C.: Erano ingenui e questo è il loro fascino...
J.L.: Assolutamente, è proprio questo. E’ come per l'operazione Grindhouse di Tarantino e Rodriguez: i film erano divertenti e hanno mantenuto gli elementi di quel cinema ma erano troppo consapevoli di sé, per quanto li abbia trovati belli e divertenti.
D.C.: Puoi descrivermi un tuo tipico giorno di lavoro? Sei uno scrittore metodico?
J.L.: Sì, comincio a scrivere la mattina, non ho un orario preciso ma in genere inizio verso le 9 e scrivo fino a mezzogiorno, poi mi interrompo per pranzare e fare quel che devo, che sia occuparmi dei miei affari, leggere o telefonare, poi mi alleno, e due volte alla settimana insegno nella mia scuola di arti marziali.