Intervista a Jason Schwartzman per Il treno per il Darjeeling
A incontrarlo, Jason Schwartzman è proprio come lo vedi nei film di Anderson e soci: bizzarro, riflessivo ma al tempo stesso iperattivo, curioso su tanti argomenti; tra i quali sottolineiamo le sneaker dell’intervistatore, oggetto di una breve e surreale conversazione extra-cinematografica. Ma Schwartzmann, che de Il treno per il Darje...
A incontrarlo, Jason Schwartzmann è proprio come lo vedi nei film di Anderson e soci: bizzarro, riflessivo ma al tempo stesso iperattivo, curioso su tanti argomenti; tra i quali sottolineiamo le sneaker dell’intervistatore, oggetto di una breve e surreale conversazione extra-cinematografica.
Ma Schwartzman, che de Il treno per il Darjeeling è anche co-sceneggiatore, ha dimostrato di avere le idee chiare sul film e sui suoi temi, come ha dimostrato nel corso di un’intervista che somiglia di più ad uno strano brainstorming…
F.G.: Per prima cosa, ho avuto l’impressione, che ognuno dei tre fratelli protagonisti del film rappresenti le cose che tutti amiamo ed odiamo dei membri della nostra famiglia. Mi piacerebbe sapere se è d’accordo e cosa eventualmente pensa possa rappresentare il suo personaggio...
J.S.: Sono d’accordo con la sua visione e penso che il mio personaggio sia forse è una combinazione di grande sentimentalismo - ama i suoi fratelli e questa compagnia - e di una forte voglia di tranquillità... lui fa resistenza ad andare in giro con il gruppo. E’ molto cauto, è il fratello più giovane, così penso che abbia sempre dei piani di fuga per venir fuori da questa situazione. E’ molto cauto… E’ frustrante, perché loro hanno sempre voluto fare un viaggio assieme, ma lui si chiede solo quando finirà tutto quanto. E’ così che è fatto.
F.G.: Una delle cose veramente interessanti di questo film è che prosegue il ragionamento portato avanti con Le avventure acquatiche di Steve Zissou e I Tenenbaum: sono tutti film che parlano di nuovi modi di avere a che fare con la famiglia, di cos’è la famiglia oggi o cosa dovrebbe essere. L'equilibrio presente nel film tra quello che è la famiglia tradizionale e quello che può diventare, liberandosi di qualcosa di sbagliato, rimane. Cosa ne pensa di queste idee e come ci avete lavorato insieme?
J.S.: E’ veramente una bella domanda. Non so, vorrei semplicemente dire che lei ha ragione, non mi sembra che lei abbia tanto posto una domanda, quanto che abbia fatto una dichiarazione molto efficace. Potrebbe approfondire?
F.G.: Concentriamoci sul tema allora: ne avete parlato insieme o invece era tutto di Wes Anderson e vi siete fermati lì?
J.S.: Non penso che sia stata una decisione conscia pensare a come potevamo esaminare la famiglia tradizionale, cosa significa la famiglia e l’emergere di un senso di famiglia più moderno, se era questo che si chiedeva. Penso che ci sia qualcosa di inconscio: c’è una lotta e una tensione nell’opera e penso che noi stavamo combattendo istintivamente quando la scrivevamo, perché ci sono tre fratelli che sanno di potersi amare maggiormente e lo dovrebbero fare, diventando una vera famiglia. Dicono di voler esser fratelli e vogliono creare la famiglia che avevano una volta, quella tradizionale, ma c’è stata una tragedia al loro interno, la morte del padre. Penso che, più di ogni altra cosa, loro debbano capire come raccogliere i pezzi di questa tragedia, come ridefinirsi in quanto fratelli e accettare questo disastro, o comunque lo si voglia chiamare, così come la madre che li ha lasciati. Chi siamo ora senza l’etichetta della famiglia tradizionale? La madre, il padre, il fratello maggiore, quello di mezzo e il minore... chi siamo in questa situazione? Quindi, credo che ognuno stia cercando un ruolo nuovo e così facendo i tre protagonisti scoprono che sono amici, che si possono amare... Ritengo che venga espresso quando uno di loro dice “pensi che saremmo stati amici nella vita reale?”. La domanda è "se non fossimo stati fratelli e non fossimo nati secondo questa tradizione, saremmo andati d’accordo e ci saremmo amati?" Credo che la risposta che fornisce sia realistica, così come il film. Ma non penso che ragionare su tutto questo fosse una cosa conscia... Sono comunque d’accordo con quello che lei ha detto, probabilmente l’ho solo reso più confuso. Grazie per avermi aiutato a farlo (ride N.d.R).
F.G.: Anche se il suo personaggio è l’unico di cui conosciamo qualcosa, visto che c’è un frammento del suo passato che viene mostrato nel cortometraggio introduttivo, Hotel Chevalier, mi chiedevo se lei ha immaginato qualcosa in più sulla sua vita, sul suo passato ma anche sul suo futuro...
J.S.: Sì, certo, intende in questo film?
F.G.: Non solo… Dove pensa ad esempio che sia diretto, dopo la fine del film?
J.S.: Sto pensando a dove andrebbero ora. Forse, andrebbero tutti insieme in America, almeno spero. Ho chiesto a Wes dove potrebbero andare... magari in Italia, perché nel film ho un biglietto per l’Italia... Ma credo che tornerebbero tutti insieme in America. Penso che a metà del film, quando si recano all’aeroporto, il mio personaggio vorrebbe andare in Italia e forse lì incontrerebbe la sua ex, portando avanti questo ciclo in cui viene trattato male. Ma credo che alla fine del film ci sia una conclusione che ci indica come per loro tutto è cambiato: non si tratterranno più male tra loro e non si faranno trattare male dagli altri. Quindi probabilmente tornano tutti insieme in America. Forse si concentreranno sulle valigie del padre e faranno un inventario.