Il talento del calabrone: intervista a Lorenzo Richelmy, attore in ascolto, viaggiatore e… bombo
Lorenzo Richelmy, insieme a Sergio Castellitto e ad Anna Foglietta, è uno dei protagonisti de Il talento del calabrone, da oggi su Amazon Prime Video. Lo abbiamo incontrato per parlare del film, di musica, dei social e di filosofie di vita.
Doveva arrivare in sala nel mese di marzo Il talento del calabrone, film tutto in una sera di Giacomo Cimini con protagonisti Sergio Castellitto, Lorenzo Richelmy e Anna Foglietta, ma siccome non era (e di nuovo non è) tempo di sale cinematografiche, il thriller di ambientazione milanese debutta oggi, 18 novembre, su Amazon Prime Video. Raffinato e dal ritmo incalzante, il film racconta la storia di un deejay sfrontato e fin troppo sicuro di sé di nome Steph che, mentre conduce il suo programma, riceve la telefonata di un uomo chiamato Carlo che intende suicidarsi facendosi esplodere. La conversazione si fa sempre più tesa, mentre brandelli del passato del misterioso Carlo cominciano a venire fuori.
Del Talento del calabrone abbiamo parlato amabilmente con Lorenzo Richelmy, un attore che ci fa sempre piacere intervistare per l’originalità delle risposte e la possibilità di spaziare dal cinema alla vita. Lo abbiamo incontrato "virtualmente", e all’inizio della nostra chiacchierata ci ha spiegato quanto sia complicato e insidioso "recitare al telefono".
"La recitazione è una partita di ping pong. La scena si costruisce fra due attori perché non puoi predeterminare troppo quello che andrai a fare. Quindi, se togli la persona che sta davanti a te, è come se dovessi interpretare due personaggi, perché hai due piani di informazioni da passare allo spettatore. Poi magari nel film si vede anche la controparte, ma chiaramente, nel momento in cui l'attore sta girando la scena, è da solo. Nel Talento del calabrone la presenza del mezzo radiofonico ha reso il mio lavoro un po’ meno complicato. Ma l'intero film è stato girato in due situazioni differenti. Quando facevo le mie scene, non c'era Sergio Castellitto, e quando toccava a lui, non c'ero io. E’ stato difficile perché, un conto è fare una telefonata di un paio di minuti, un conto è farla durare per tutto il film".
Quindi non hai avuto il piacere di lavorare insieme a Sergio Castellitto...
In realtà sì. Ci siamo organizzati così. Ha cominciato prima Sergio a fare la sua parte, e io ero molto divertito perché mi sembrava di essere un suggeritore. Eravamo nel teatro di posa dove avevamo allestito il set e io ero chiuso in una stanzetta dall'altra parte del set con un microfonino a dare le battute a Sergio. E’ stata una bella esperienza perché io sono un fan dell’improvvisazione. Sergio, nonostante la grande esperienza e l'età non più giovanissima, era fresco come una rosa sul set e improvvisava tantissimo, e io ovviamente non è che potevo fare il puntiglioso e dire: "Sergio, non hai detto questo". Dovevo seguirlo, quindi c'è stata una doppia improvvisazione individuale, cioè prima Sergio faceva le sue scene e, se se la sentiva, andava un po’ a braccio e io lo seguivo. Dopodiché, quando dovevo girare le mie scene, il regista ed io andavamo a rivedere quello che aveva fatto Sergio per capire il tipo di ritmo della scena e se ci fosse qualcosa di non scritto che ci piaceva. In quel caso dovevo improvvisare, anche da solo, sull'improvvisazione di Sergio. E' stato un processo molto difficile e complesso, che però ha reso la costruzione dei personaggi più approfondita.
Steph, il tuo personaggio, non è esattamente un simpaticone. Come si fa, quando si è giovani, belli e talentuosi come sei tu, a non diventare come lui?
Il personaggio di Steph è un po’ la rappresentazione di quello che stiamo vedendo in questi ultimi anni: ragazzi famosi con assolutamente zero contenuti. Io ho un rapporto particolare con questo mestiere, nel senso che ho avuto più volte la possibilità di farmi prendere alla sprovvista dalla popolarità, perché quello che succede è che tu hai una percezione di te stesso che ti sembra giusta, concreta. Tuttavia, nel momento in cui fai qualcosa di pubblicamente rilevante e ti esponi al giudizio di tante persone, è come se da quel momento venissi visto in maniera diversa. Tu sei rimasto identico, ma gli altri ti vedono in maniera differente, e quindi sei tentato di sentirti diverso, solitamente migliore. Sei diventato famoso e ti dici: "Vedi che sono fico?". Ognuno di noi si sente speciale come individuo, ma nel momento in cui ti capita di avere un minimo di successo, il rischio più grande è che la tua percezione di te stesso finisca in mano a un gruppo di persone che non conosci e che ti definiscono con una serie di aggettivi identificativi che non ti appartengono.
L’assistente di Steph è ossessionata dai like che riceve Steph. Tu come vedi i social?
Siamo in un momento in cui i social media ti spingono a lavorare perennemente sulla costruzione di un'immagine di te stesso che sia la più edulcorata possibile. Sembra che tutti, i più giovani in particolare, abbiano la necessità di avere una vita invidiabile e invidiata dagli altri, e ciò presuppone che tu, per raggiungere questa costruzione, cerchi di nascondere le tue debolezze, di far finta che non ne hai. Questo processo mentale è molto dannoso perché ti rende poco onesto con te stesso. Siamo in un periodo storico in cui il minimo comun denominatore fra noi e gli altri sono le nostre abilità, le nostre parti più luminose, mentre di solito le persone di cui ti circondi conoscono le tue fragilità. Quindi se ti affidi troppo ai social, sei sotto attacco. Bastano due amici a riportarti con i piedi per terra, e infatti deejay Steph non ha amici. Steph è il prodotto di un periodo storico in cui siamo in perenne ansia da performance. Dobbiamo sempre stare su una copertina, che poi è Instagram, un "luogo" dove tu perdi l'io a favore del super-io.
La recitazione può aiutare a difendere l’io, allontanando il super-io?
Certo. Per me recitare è proprio far emergere un lato nascosto che spesso perdiamo. Quando nella mia vita mi sono reso conto che l'abito faceva il monaco più di quanto avrei voluto, mi sono detto che avrei potuto studiare questa strana realtà. Per me fare l'attore ha voluto dire diventare padrone di come vengo percepito dagli altri. E’ un processo che mi aiuta a conoscermi. Per me recitare significa inoltre mettermi nei panni dell'altro e in questo senso è un grande esercizio cristiano. L'attore deve capire le ragioni degli altri, in particolare dei personaggi che interpreta. L'attore dovrebbe accorciare le distanze fra sé e gli altri, e questo, per tornare a un concetto espresso ne Il talento del calabrone, significa ascoltare.
Nel film si parla del calabrone dicendo che, nonostante abbia le ali corte, vola, e questo perché non ha mai pensato di non poter volare. Il calabrone quindi ha grinta, forza di volontà. Tu sei un po’ come lui?
In realtà l’insetto con le ali corte non è il calabrone ma il bombo. Mi è piaciuto questo progetto e sono stato contento di averlo sposato perché filosoficamente io mi sento un po’ un bombo. Da piccolino sono sempre stato un po’ storto. Siccome non ero carino, fare quello che sto facendo adesso non mi è mai riuscito facile, ma ho sempre voluto farlo in qualche modo, e la piccola fiaba del bombo è molto vera e molto giusta, perché vuol dire che tu, appunto, non dai retta a quello che gli altri ti dicono, parlando di ciò che puoi o non puoi fare. Gli scienziati dicono che il bombo ha le ali troppo piccole per poter volare, ma lui questa cosa non la sa, non gli interessa, lui vuole volare e vola.
Visto che nel film interpreti un deejay che delizia le orecchie dei suoi ascoltatori con i loro brani musicali preferiti, credo sua giusto parlare di musica. Cosa rispondi a quelli che dicono che quella degli anni '60,'70, '80 e '90 era musica, mentre oggi c’è solo rumore?
Che forse sono un po’ drastici. Io sono un grande ascoltatore di musica. Quegli anni là, ma in fondo anche i Cinquanta, erano tempi favolosi, per esempio perché è nato il rock & roll. L'eterogeneità che regnava negli anni '50, '60 e '70 era incredibile, c'era di tutto. Oggi, nonostante ci sia di tutto, le cose si somigliano molto, e infatti c'è una contaminazione di generi incredibile. Sono un grande fan degli anni ‘60, ’70. Gli ‘80 non mi piacciono per niente, ma sono stati gli anni che hanno dato un la a tutto ciò che è venuto dopo, l’elettronica in primis. E poi sono un fan della cultura hip hop americana degli anni '90-2000, che ha rivoluzionato il mondo della musica. Se penso che in Italia i rapper e trapper sono arrivati 20 anni dopo…Per tornare a quello che dicevi tu, la musica di oggi è sicuramente tanto rumore, diciamo che però i musicisti veri ci sono, ma il sistema non te li fa vedere.
Scommetto che la cosa che ti è mancata di più in questo anno di pandemia è stata viaggiare…
Proprio così. Io lavoro anche all'estero, e quindi non avere la possibilità di uscire fuori non è stato piacevole. Di solito quello che facevo alla fine di ogni film era fare un viaggio, magari in Asia. Per me viaggiare è come il caffè la mattina, è qualcosa di vitale, non riesco a farne a meno, e non poterlo fare mi ha ribaltato un po’, mi ha fatto ripensare a quanto sia stato fortunato ad averne avuto l’opportunità e a quanto la mia generazione sia fortunata a poter vedere il modo così tanto.
Sei uno da alberghetti di lusso o da zaino in spalla e trekking?
Non sono per gli alberghetti di lusso. Vedi, c'è una grande differenza fra il turista e il viaggiatore. Il viaggiatore viaggia, deve vedere i posti, il turista vuole fare una vacanza. I viaggi che ho fatto non li ho mai considerati vacanze, sono sempre tornato psicologicamente rinnovato ma fisicamente distrutto, perché per me il viaggio è certamente zaino in spalla e camminare per città indiane o indonesiane, malesi, e dormire in alberghetti il più scamuffi e poveri possibile. Resterò un backpacker tutta la vita, amo le zingarate.
Hai parlato dell’Asia. In Africa ci sei mai stato?
Solo in Marocco, però pensa che mia madre ha scoperto di essere incinta mentre era in Africa, e infatti il mio terzo nome è Habib proprio per questo motivo. Habib vuol dire amore in arabo, perché mia mamma stava in Somalia quando ha scoperto di aspettarmi.
Adesso abiti a Milano, che non sta attraversando un periodo fortunatissimo. Che rapporto hai con la città?
Io sono cresciuto a Roma. Sono nato a La Spezia, però mi sono trasferito a Roma quando ero piccolo, quindi la mia città di adozione è Roma, e da Roma Milano viene vista malissimo, sono tutti un po’ in punta di forchetta, c'è la nebbia, si lavora, se la tirano. Questi luoghi comuni mi sono sempre sembrati un po’ ingiusti. Mi sono innamorato di Milano molto velocemente, anche perché Milano è l'unica città veramente europea d'Italia e può quindi competere con le altre grandi città del mondo. Lo capisci anche da un’atmosfera proattiva. Roma mi ha stancato perché è ferma, è bellissima, ma è un museo con le ragnatele, stai fermo, si fanno sempre gli stessi discorsi, incontri sempre le stesse persone. Sono convinto che Milano sarà la prima città a ripartire di gran carriera dopo questa crisi sanitaria e finanziaria. Spero che Roma riesca in qualche modo a trarne spunto.