Interviste Cinema

"Il nostro modello sociale non funziona più": cosa resta della rivoluzione secondo Judith Davis

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Un dialogo fra privato e politico, intimo e militante, fra una ragazza di oggi che vuole cambiare il mondo e suo padre, sempre impegnato politicamente, che per poco non l’ha veramente cambiato, il mondo. Incontro con Judith Davis per parlare della sua commedia militante Cosa resta della rivoluzione.

"Il nostro modello sociale non funziona più": cosa resta della rivoluzione secondo Judith Davis

Il cinema politico, addirittura militante, può essere veicolato con la commedia. È l’idea di fondo dell’esordio alla regia dell’attrice francese di cinema e teatro Judith Davis, che in Cosa resta della rivoluzione, in uscita nelle nostre sale il 27 agosto per Wanted, presenta una riflessione approfondita sull’impegno politico in cerca di un cambiamento nel mondo, visto attraverso una famiglia, in particolare fra un padre sempre rimasto accorato ai suoi ideali comunisti e una figlia, Angèle, urbanista in cerca di una sua via per la rivoluzione, interpretata dalla stessa Davis. Arrabbiata e determinata, Angèle si applica tanto nel tentativo di cambiare il mondo quanto nel darsela a gambe dagli incontri romantici.

Abbiamo incontrato Judith Davis a Parigi, in epoca prepandemica.

Come mai ha voluto fare un film su una generazione che è nata troppo tardi, come dice spesso nel film?

Prima di tutto perché è la mia e quando faccio cinema cerco di partire da una necessità profonda. Sono partita da un progetto teatrale legato a un collettivo di cui faccio parte da tredici anni. Abbiamo co-creato la storia con quattro attori che sono anche nel film. Volevamo essere autori della parola comune che volevamo rivolgere agli spettatori, dando un senso più ampio al termine di attori e interrogandoci come esseri umani e cittadini su determinate tematiche. Avevamo bisogno di parlarne pubblicamente, in scena. È impossibile nella società trovare un luogo comune in cui condividere la responsabilità di un progetto intero, in cui siamo allo stesso tempo autori, attori e produttori oltre che drammaturghi e registi. La nostra pièce non è mai fuori dal mondo, ma molto addentro a quello che vuol dire “fabbricare” uno spettacolo. Volevamo raccontare come dei genitori impegnati politicamente, in un momento in cui la rivoluzione era un orizzonte politico a portata di mano, abbiano avuto dei figli che 25 o 30 più tardi vivono nelle imprese, dopo la caduta del muro e di quegli ideali. Volevo con il film andare più in profondità della pièce, e questa generazione che è nata troppo tardi è incarnata da Angèle, che è frustrata fra l’impegno totale che immagina abbia caratterizzato la lotta politica dei genitori nel passato e allo stesso tempo la rabbia per non poter creare un proprio modello adeguato a una realtà che è cambiata, con gli anni ’70 come ingombrante totem non superabile a cui rendere sempre conto in maniera un po’ accondiscendente.

È un rapporto d’amore e odio generazionale, con l’incombente onere di dover uccidere i propri padri, ma dall’altro c’è anche della nostalgia per qualcosa che non potrà mai tornare.

È un ambivalenza che trovavo interessante in termine di drammaturgia e di cinema, fra un’emancipazione politica e una intima. I due piani possono avvicinarsi, il teorico non si distanzia più dai nostri affetti, trovavo fosse una buona idea raccontarlo attraverso una famiglia, perché ogni volta che c’è un disaccordo politico diventa una ferita intima, ogni volta che c’è un litigio fra sorelle diventa un duello ideologico. Attraversiamo sempre i due piani, quello politico e quello intimo e familiare e le domande che si pongono le due generazioni non sono le stesse.

Immagino sia stato un viaggio intimo interessante anche per lei, non so se personale, ma collettivamente è sbirciare in un rapporto, quello fra privato e pubblico, che è molto diverso in un società che è molto cambiata. Il suo personaggio è un’urbanista impegnata.

Ho scelto questo mestiere per tradurre il suo dilemma fra le buone intenzioni e l’applicazione concreta, contraddizione spesso violenta che mi piaceva potesse essere rappresentata in un paesaggio. Al di là del suo dogmatismo che talvolta la fa sembrare bloccata, mi piaceva avesse un’ironia condivisa, non imposta, che addirittura sfociasse nell’autoderisione. Credo fortemente che oggi ci sia un’urgenza di reagire da parte di molte persone che vengono letteralmente distrutte dal sistema capitalista. È un’urgenza di oggi. Non si può continuare a vivere così, non funziona più. Nel film non volevo però che nessun personaggio fosse il portavoce di una soluzione, perché non ne ho, fanno semplicemente quello che possono. Il padre di lei ha scelto l’impegno in passato, la madre di ritirarsi in campagna. Nella generazione del padre c’è una disgiunzione fra la teoria e la pratica, fra quello che pensa e quello che fa, come formulare un ideale e come agire concretamente nella vita. Questa è una dinamica che sta cambiando oggi nella società, attraverso per esempio il dibattito sulla dominazione maschile sulla donna o sulla questione ecologica. Per la prima volta mi sembra che ci stia facendo impazzire questa assenza di coerenza. Non si può più dire che la questione omosessuale, o quella femminile, verrà regolata nella rivoluzione. Continuare a farlo avrebbe delle conseguenze gravi.

Pensa sia possibile fare del cinema politico, definiamolo anche militante, attraverso un genere come la commedia?

Per me è una strategia, il rapporto con l’umorismo è duplice. Se non posso ridere con gli altri di quello che ci allontana, cioè passare dalla risata per una presa di coscienza comune e federatrice, allora sarà la disperazione a vincere. Nella mia vita scherzo sempre per denunciare, attraverso un’attitudine vitale, è una cosa molto seria. Se non ridiamo non alimentiamo la nostra fiamma che ci tiene in vita. Se non creo complicità con lo spettatore non ottengo niente, e siccome ho dei messaggi molto precisi da far passare, se non li ottengo attraverso la connivenza allora non c’è dialogo.

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