"Il mio poliziotto di periferia in cerca di ascesa sociale": Reda Kateb ci parla di Fratelli nemici
Incontro con uno dei più convincenti attori del cinema francese.
Il suo volto è inconfondibile, e solo pochi anni fa lo avrebbe limitato a ruoli da caratterista. Invece Reda Kateb, francese originario di una famiglia algerina di artisti e scrittori, è uno degli attori più in crescita del cinema francese. Sono stati gli anni e le interpretazioni molto apprezzate a fargli guadagnare ruoli anche lontani rispetto allo stereotipo dell’immigrato di seconda generazione. Anche se in Fratelli nemici, in concorso a Venezia, interpreta il ragazzo di periferia che abbandona la sua gang, e il suo contesto sociale, per avviare una carriera da poliziotto e prendere al volo l’ascensore sociale.
Lo abbiamo incontrato insieme al suo cane, che spesso porta anche sul set, con ha già una carriera alle spalle niente male, specie per un attore canino.
Il suo personaggio è un poliziotto, i suoi amici fraterni d’infanzia sono dei criminali, ma non sembrano molto diversi.
È quello che cercavo, che mi interessava nella sceneggiatura e in generale nel lavoro di David Oelhoffen: non muoverci nel cinema dei luoghi comuni, dei buoni e dei cattivi, ma rielaborando i cliché in maniera talvolta cinica, cercare di dare vita a quelle entità che sono i personaggi, rendendoli più veri e vivi possibili. Nei due film che ho fatto con David (l’altro è Loin des hommes ndr), i protagonisti si rifugiano lontano dagli altri, isolati, in un’epoca in cui ci si rinchiude nella propria comunità. Nel suo cinema c’è veramente l’idea che gli uomini si possano incontrare nel loro cuore, al di là dei ruoli imposti dalla società. In Fratelli nemici i personaggi si trovano a dover pagare un prezzo alto, per loro il dramma è scritto dall’inizio, nonostante il tentativo di evitarlo. Con le dovute proporzioni, e con modestia, è una sorta di tragedia greca di oggi, in quel contesto di periferia in cui è raro trovare una tale verità al cinema, visto che subito il luogo comune occupa ogni spazio.
Si parla tanto di come abbandonare le banlieue, ma raramente le si racconta con attenzione e verosimiglianza.
È proprio questo. All’inizio del film abbiamo la sensazione che il gruppo di poliziotti sia molto austero, al contrario di quello dei criminali, che è caldo e molto caloroso, ma presto svela la paranoia, il tradimento, la possibilità di finire in un attimo con una pallottola nella schiena. Il mio personaggio è bloccato nell’ascensore sociale, ha voluto liberarsi dal contesto in cui è cresciuto, evolvere nella società rispettando la legge come poliziotto, e per farlo con successo non può che utilizzare gli anni della sua infanzia vissuti in mezzo ai trafficanti. Racconta poi qualcosa sul rapporto della Francia con la sua diversità e i suoi figli d’immigrati.
È importante per lei interpretare ruoli socialmente definiti, da immigrato di periferia, o è una forzatura?
Non scelgo fra l’uno e l’altro, è appena uscito in Francia Le chant du loup, in cui sono un comandante di un sottomarino, un film appassionante che racconta anche qualcosa del contesto geopolitico di oggi. Ho bisogno che le cose siano reali per recitare una parte, ci sia una base solida che mi permetta di incarnare un personaggio, altrimenti posso usare tutta l’immaginazione e la fantasia, ma non sarei mai credibile.
Parlando di incarnazione, spesso i suoi personaggi sono importanti per gli spettatori della banlieue, che possono identificarsi. Le sue scelte sembrano istintive, si intuisce il peso della responsabilità che si prende.
È assolutamente così. Ogni volta cerco di rispettare il reale, per esempio per Fratelli nemici ho passato molto tempo con un capitano di polizia della questura di Parigi, con un grado uguale al mio personaggio, per conoscere nel dettaglio quale fosse il suo quotidiano, quanto tempo passasse al computer o in ufficio, rispetto al tempo speso sul terreno, quale ruolo avessero gli informatori, i suoi capi e i suoi colleghi. Il tutto per avere un’idea del contesto, è molto importante per poter poi raccontare la storia. Ogni volta è così, per me, per Django è stato il tempo impiegato a suonare la chitarra, ma anche speso insieme alla comunità manouche che mi ha accolto nell’est della Francia, per Le Chant du Loup mi sono immerso due volte in un vero sottomarino. Non lo faccio solo per il risultato, ma fare dei film mi regala una corsia preferenziale a delle realtà ogni volta molto diverse, che posso penetrare in maniera assai intensa. Non vengo accolto come un turista, perché vado per lavorare.
È la gioia dell’attore?
È il lato da inquirente, indagatore, del mestiere d’attore, e mi piace molto.
Fratelli nemici è anche un film sull’amicizia, che si dice duri per sempre quando nasce da adolescenti. Il cinema regala da sempre legami intensi e virili, quasi tribali.
La fraternità è una dinamica presente nel cinema di James Gray, ma trovo delle somiglianze anche fra lui e David Oelhoffen, in Francia. Se dovessi pensare a un film mi viene in mente Amanti perduti di Carné, con una prima parte in cui c’è un attore tribolato, di basso livello, che poi molto tempo dopo ritrova il suo amico intimo di tanti anni prima, quando ha trovato il successo, e si guardano; ti rendi conto che la dinamica fra loro è sempre la stessa, è lo stesso film, nonostante tutto. È la magia del cinema, mostrare che un essere umano è tale, il poveraccio è uscito dallo stesso ventre della madre del Presidente della Repubblica. È un po’ utopistico vedere le cose così, ma ci credo fermamente, la magia della macchina da presa è mostrarcelo, farcelo capire.
Non ha voglia di fare una commedia, visto che fa spesso ruoli molto drammatici?
È vero, come attori dipendiamo da quello che ci viene proposto, come spettatore amo più le commedie straniere che quelle che facciamo in Francia. Quest’anno ne ho fatta una, L’amour flou, insieme al mio cane, che sembra faccia molto ridere, poi sarò nel prossimo film di Nakache e Toledano, i registi di Quasi amici. Durante la lavorazione mi è sembrato di trovare nuove frecce al mio arco, è stato fantastico scoprire la leggerezza, penso di avere ancora molte corde da esplorare.