François Ozon a Roma presenta il suo nuovo film, Ricky
Che François Ozon abbia un grande amore per l’Italia si vede non solo dalla predilezione per le nostre canzoni all’interno dei suoi film, ma anche dalle sue frequenti visite a Roma. Seduto su una sedia dorata del Salone d’Ercole dell’Ambasciata di Francia, il regista ci ha parlato di Ricky, un film che qualcuno ha già potuto vedere all...
François Ozon a Roma presenta il suo nuovo film, Ricky
Molti film di François Ozon sono accomunati da due caratteristiche: la descrizione, a volte divertita a volte sarcastica, della media e alta borghesia, e l’analisi, più spesso dissacratoria, della famiglia intesa come focolaio di tensioni e conflitti. Nel nuovissimo Ricky, nelle sale dal 9 ottobre, il regista cambia tendenza e ambienta il suo “conte fantastique” che parla di un bambino a cui spuntano improvvisamente le ali in un milieu operaio nel quale c’è ancora posto per l’amore fra una madre e i figli o fra un marito e una moglie.
“Avevo bisogno di ambientare la mia storia in un contesto di semi-povertà” – ci ha raccontato – “per spiegare come l’arrivo di questo bambino così speciale riesca ad arricchire la vita di persone che ogni giorno lottano duramente per andare avanti, per arrivare alla fine del mese. Il piccolo Ricky è un raggio di sole per i suoi genitori, è un angelo che porta un po’ di pace e ristabilisce gli equilibri. Se fosse nato all’interno di una famiglia borghese, probabilmente sarebbe diventato oggetto di curiosità scientifica e mediatica, e allora il film avrebbe cambiato tono …” .
A proposito di toni, Ricky sembra averne molteplici, perché inizia come un dramma di Ken Loach per poi trasformarsi in una favola che strizza l’occhio a Rosemary’s Baby. “Io non credo che ci sia molta differenza fra la prima e la seconda parte” – ha obiettato il regista. – “Ho voluto imporre una certa stilizzazione fin dall’inizio, e comunque non mi piace ‘incastrare’ il film all’interno di una singola categoria, non mi piace nemmeno dare un’interpretazione della storia. Io pongo delle domande, quando faccio cinema, e voglio che a rispondere sia il pubblico. Ognuno avrà una reazione differente, e va bene così. Nel caso di Ricky, i più religiosi coglieranno un significato spirituale nell’arrivo del bambino, i più marxisti, invece, si appassioneranno alle problematiche sociali e lavorative dei protagonisti della storia”.
Come Regarde La Mer (1997) e l’imminente Le Refuge (che uscirà a marzo del 2010), Ricky è anche un’esplorazione del tema della maternità. “ La nostra società tende a idealizzare la maternità, dipingendola solo come un momento estremamente gioioso. Penso invece che l’arrivo di un bambino possa trasformarsi in qualcosa di spaventoso, di mostruoso. Per questo ho voluto mostrare un bambino che oltre a sorridere piange, esasperando i genitori. E come la maternità può significare trasformazione del corpo e della sessualità di una donna, per un uomo la paternità è spesso sinonimo di spaesamento. Paco, il padre di Ricky, si sente escluso dal rapporto viscerale fra il bambino e sua madre, ed è per questo che a un certo punto va via”.
Anche se parla il linguaggio di un tipico film di Ozon – attenzione quasi maniacale ai corpi degli attori, grande ironia, atteggiamento di dolcezza verso i personaggi – Ricky non nasce da un’idea del regista. E’ il libero adattamento di un racconto di Rose Tremain intitolato "Moth" che in sede di sceneggiatura è stato notevolmente modificato. “Lo trovavo troppo triste” – ha precisato il regista – “troppo cupo, non esprimeva la mia visione delle cose. Avevo bisogno di più leggerezza e di una buona dose di ottimismo. In effetti anche nel mio film c’è un lato spaventoso, ci sono le favole dei fratelli Grimm e c’è la paura della perdita e della morte, ma non sono l’elemento più importante”.
Se Ozon non ha esitato neppure un istante ad affidare i ruoli della mamma e del papà di Ricky ad Alexandra Lamy e Sergi Lopez, ha impiegato diverso tempo per trovare Arthur Peyret, il bambino. “Ogni volta che facevo un provino a un neonato, era come se mettessi sotto esame anche sua madre. Se una mamma cominciava a strillare non appena prendevo suo figlio in braccio, scartavo il bambino e continuavo con il casting. Ho diretto Arthur come si dirige un attore adulto. Era lui la star del film. Sapevo che fra le 11 e le 12 si lamentava se non gli veniva dato il biberon e così giravo in quella fascia oraria le scene in cui doveva piangere. Se invece avevo bisogno di mostrarlo contento e giocoso, aspettavo le 4 di pomeriggio, quando aveva appena mangiato. Stavamo tutti al suo servizio, e gli altri attori erano davvero gelosi”.