Daniele Vicari ci racconta il suo Diaz
Ecco la nostra esclusiva intervista al regista del film del momento, realizzata a Berlino poco prima della presentazione ufficiale di Diaz nella sezione Panorama.
D: Daniele, sembra palese che Diaz fosse un film necessario, se non altro per superare un rimosso terribilmente ingombrante del nostro paese. Ma nonostante il senso di sdegno e urgenza che la visione del film trasmette, sembra quasi che tu abbia voluto rifiutare una messa in scena tradizionalmente militante, perlomeno per gli standard del cinema italiano…
R: Io faccio il cineasta, non faccio il politico. Per me la cosa fondamentale è fare dei film che abbiano un senso e siano elaborati dignitosamente dal punto di vista cinematografico. Per questo nel mio film non ci sono le dietrologie classiche del cinema politico italiano, ma i fatti processuali elaborati in maniera personale dal punto di vista cinematografico. Un’elaborazione che ha portato alla realizzazione di un film in cui l’azione drammatica è strutturante del racconto, e non l’ideologia che vi sta a monte.
D: Da questo punto di vista, colpisce l’equilibrio tra lo spirito semidocumentaristico di alcune scene e invece l’astrazione e la surrealtà di altre. In alcuni momenti Diaz è un incubo ad occhi aperti e non solo per la rappresentazione della violenza ma per la sua preparazione, per le atmosfere. Come si combina il realismo con l’astrazione?
R: Grazie per aver parlato di realismo, perché nella storia del cinema (e non solo) italiano la sperimentazione anche linguistica avviene intorno al concetto di realismo: da Verga al neorealismo, la vera avanguardia cinematografica del nostro paese. Quindi quando ti racconto una storia parto da dei connotati di realtà sui quali poi posso costruire qualunque tipo di approccio cinematografico. Posso anche realizzare una commistione tra generi senza mai perdere di vista l’obiettivo del racconto. In questo caso, l’obiettivo era far emergere la follia di un comportamento fuori da ogni principio democratico da parte delle istituzioni. Il tema è quindi quello della sospensione dei diritti democratici: un tema universale, che riguarda ogni paese in qualunque angolo del mondo. L’essere spogliati di ogni dignità per il semplice fatto di appartenere ad una categoria che mette in discussione lo Stato o alcuni suoi apparati. Se lo scopo è raccontare questo, posso farlo con un racconto fortemente realistico ma senza per questo rinunciare a quello spazio straordinario e infinito che dentro un film la macchina da presa può costruire, e avere all’interno di un film realistico scene che sfiorano l’horrror, o che diventano thriller psicologico, film sociale: la commistione è ciò che può fare la ricchezza del linguaggio del film.
D: Molte delle storie raccontate in Diaz sono quelle raccolte da Carlo Bachschmidt in Black Block…
R: Carlo ha realizzato il suo documentario mentre noi scrivevamo la sceneggiatura di Diaz. Lui si è focalizzato su poche storie, mentre per me sarebbe stato impossibile limitarmi. La chiave per raccontare quella vicenda, per me, l’unico modo possibile per capirla, è la sua coralità. Carlo ha scelto dei ragazzi che erano nella Diaz, io ho scelto anche chi era fuori della Diaz e ho scelto anche il punto di vista della polizia, altrimenti avrei fatto la metà dell’opera. Loro sono i deuteragonisti del film.
D: A proposito della polifonia di sguardi. Il tuo sguardo comunque non è stato monolitico né in un senso né nell’altro…
R: È nella vita che le cose sono complesse. Io non credo che il movimento le abbia azzeccate tutte e non credo che la polizia le abbia sbagliate tutte. Ma il problema non è questo. Tu devi rispettare una storia così se la vuoi raccontare, se la vuoi capire. Devi rispettare i fatti, avere un atteggiamento come quello del cronista, di un giornalista, che cerca di capire e che non censura nessuna verità scomoda per te stesso. Non puoi partire da una tesi e cercare di dimostrarla.
Io nel mio film non ho potuto rinunciare ai fatti in sé. Nessun poliziotto ha mai negato quello che è successo durante i processi, quindi quelli sono fatti. Nessuno però, tranne Michelangelo Fournier, ha ammesso di aver visto essere stato direttamente responsabile della cosa.
D: Di qui alla la rappresentazione della violenza, che rappresentava una questione spinosa: c’era il rischio di essere troppo morbosi. Qual è stato il tuo limite?
R: Io mi sono letteralmente censurato. Ci sono cose avvenute nella Diaz o a Bolzaneto che non si riescono a raccontare nemmeno a parole. Basta leggere gli atti dei processi. Ci sono cose inenarrabile e irrappresentabili, se non al prezzo di scivolare in un ambito di cinema che non mi interessa. Ho rispettato il limite che sentivo dentro, a volte oltrepassandolo un po’ per esigenza di verità, senza mai però compiacimento. Ma il senso di quello che accade, ancora, è nei fatti. È il modo in cui si è agita la violenza che conta, e su quello ho cercato di oltrepassare i miei limiti. Perché certe modalità sono significative di una certa visione del mondo, della democrazia, e allora non è possibile evitare di raccontarle.
D: Nel film, quando avviene l’irruzione, la violenza esplode come se non ci fosse stata una preparazione, spontanea. È una scelta figlia della questione del realismo o dietro c’è un significato metaforico ?
È un insieme delle due cose. Non volevo fare la sociologia del celerino, perché per me non esiste: non è giustificabile dire “sono violenti perché sono stanchi o stressati o provocati”, perché quello è il loro lavoro, e se non sono capaci a farlo come si deve dovrebbero trovarsene un altro. Non è possibile dimenticarsi di essere un rappresentante della legge e diventare un aguzzino che entra spacca e distrugge le persone come fossero oggetti.
Ma anche raccontare per denunciare in sé non esiste, anche perché esistono dei processi. Per me l’ideologia di questa vicenda, Diaz e Bolzaneto assieme, sta nelle modalità con cui sono accadute le cose, non nelle eventuali pressioni da parte di politici o funzionari. Io voglio capire il meccanismo, compreso il tentativo di strumentalizzarlo dal punto di vista mediatico, quel che è accaduto dopo, il fatto di raccontare bugie sfacciate in conferenza stampa: per me son cose che dicono tantissimo sullo stato qualitativo della democrazia, e dell’informazione, del nostro paese. Per me era quello il focus del film, questo quello che andava raccontato.
Per quanto riguarda la preparazione, mi sono limitato ad un paio di scene pedissequamente basate su alcuni dati processuali: se ti racconto come quell’insieme di fattori porta ad un mostruosità come quella della Diaz, io ho fatto il mio lavoro. Anche perché non c’è alcuna certezza che nessuno abbia detto a qualcuno di fare qualcosa.
D: E che mi dici del motivo ricorrente del film, quella bottiglietta che s'infrange al suolo?
R: Anche quella viene dai processi. È uno spunto che avrebbe potuto portare addirittura ad un film comico. La polizia ha detto di aver trovato delle molotov nella Diaz, c’era la possibilità di applicare il "41 tulps", ovvero quel cavillo che permette un’irruzione da parte della polizia senza autorizzazione ma solo avvisando il magistrato. Però la giustificazione per entrare nella scuola è stato in realtà il lancio di oggetti ripetuto contro una pattuglia, e nel corso dei processi è emerso che i numerosi oggetti erano una in realtà una singola bottiglia, e che la bottiglia non ha nemmeno colpito la pattuglia ma si è infranta sul marciapiede opposto. Una cosa che fa davvero ridere. È una metafora pazzesca del comportamento di alcuni dirigenti della nostra polizia, della deresponsabilizzazione della classe dirigente in generale, di cui ci stiamo rendendo conto solo ora che siamo in un dopoguerra.
Questo che stiamo vivendo è un vero dopoguerra, e la guerra è stato il decennio iniziato con Genova. Un decennio di follia, durante il quale nessuno ha fatto quello che doveva fare, tutto hanno detto tutto e il contrario di tutto. E ora che siamo di fronte allo scoglio che sta per farci affondare non sappiamo più cosa dire, non abbiamo più nemmeno la forza per protestare, non abbiamo più un’idea sul futuro del nostro paese. Ci aspetta ora una ricostruzione, a partire dai comportamenti sociali di noi cittadini e soprattutto da parte dei dirigenti pubblici.