Interviste Cinema

Coma: la nostra intervista a Bertrand Bonello

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Abbiamo incontrato il regista francese, e la sua attrice Julia Faure, per parlare del bellissimo e misterioso Coma, che arriva nei cinema italiani il 10, 11 e 12 luglio con Wanted Pictures. Ecco cosa ci hanno raccontato.

Coma: la nostra intervista a Bertrand Bonello

Il 10, 11 e 12 luglio troverete nei cinema italiani, distribuito da Wanted Pictures, Coma, nuovo lungometraggio di Bertrand Bonello che è stato presentato  in anteprima mondiale al Festival di Berlino 2022, dove ha vinto il premio FIPRESCI nella sezione Encounters, ed è stato presente al quarantesimo Torino Film Festival.
Come ho cercato di spiegare nella mia recensione, Coma è un film molto affascinante, e che dice cose interessanti e non banali sul mondo contemporaneo; un piccolo, grande film, sperimentale e godardiano, sulle catastrofi del presente, sulla rinascita, soprattutto sulle immagini e il (loro) linguaggio.
Bonello, infatti, racconta il mondo visto attraverso lo sguardo e il flusso di immagini che vive una ragazza di diciotto anni chiusa in casa per via della pandemia (forse), e che per farlo alterna immagini di repertorio, cinema “tradizionale”, il linguaggio di YouTube - attraverso l’invenzione di uno strano e affascinante personaggio di nome Patricia Coma - e le chiamate in FaceTime o su Zoom, l’animazione 3D e quella in stop-motion, creando un mondo concretissimo e onirico al tempo stesso.
Quando Betrand Bonello e Julia Faure (l’attrice che interpreta Patricia Coma) sono stati a Roma per un’anteprima del loro film li ho incontrati e intervistati. Quello che mi hanno raccontato lo potete leggere qui di seguito dopo il trailer di Coma.

f.g.: Bertrand Bonello, vorrei cominciare dall’inizio, da quell’inizio del film in cui lei si rivolge a sua figlia, e parla della voglia di fare un film “semplice e breve come un gesto”. Il gesto cinematografico di questo film si avvicina all’idea di essenzialità che dichiara, ma allo stesso tempo è composto da una enorme varietà di temi e stili.

b.b.: Questo è un film è stato realizzato in diverse fasi. Sono partito dal prologo, che è nato come un cortometraggio, una sorta di lettera a mia figlia, o a una ragazza di diciotto anni qualsiasi che si ritrova a doversi aprire al mondo nel mezzo della pandemia, bloccata nel momento in cui dovrebbe aprirsi dentro le mura di una casa. Quando ho finito questo cortometraggio ho capito che volevo andare più lontano, e volevo provare a entrare nel cervello, nella mente di una diciottenne per capire cosa c’è lì, e come guarda una ragazza di quell’età al mondo che noi stiamo lasciando a questi ragazzi. Il vantaggio di fare un lavoro del genere, di entrare nella mente di un’adolescente, è che questo mi ha permesso di realizzare un racconto molto libero, e di procedere per libere associazioni di idee. Per questo la prima cosa che ho fatto è stato inventare, costruire così tanti mondi diversi: ci sono immagini di archivio, c’è il canale YouTube di Patricia Coma che non si sa se sia reale o un’invenzione mentale di questa ragazza, non si capisce mai quale sia il suo grado di realtà, c’è il limbo, ci sono le Barbie. Aver potuto realizzare questa quantità di mondi diversi ma definiti mi ha dato anche modo di lanciare dei messaggi in modo chiaro e frontale e diretto. Come appunto accade nel canale YouTube, dove alla fine si dicono cose che possono essere profonde, terrificanti o divertenti, ma sempre frontalmente.

f.g.: Julia Faure, per costruire il personaggio di Patricia Coma, che è appunto misterioso, ambiguo, onirico, che indicazioni ha avuto dal regista, e come le ha integrate con le sue idee?

j.f.: Abbiamo fatto due letture assieme per trovare il tono giusto per Patricia. Siamo partiti dall’idea del meteo, e abbiamo visto molti video di ragazze che presentano il meteo, ma allo stesso tempo volevamo che Patricia fosse molto più inquietante rispetto a quei modelli. Per me è un personaggio che viene dal cinema del passato, dal cinema degli anni Trenta e Quaranta, dall’archetipo della femme fatale, ma che allo stesso tempo è completamente contemporaneo. Lei è una ragazza del meteo del futuro, che fa annunci distopici e che emerge dalle immagini del passato.

f.g.: Bonello, di Coma si è detto spesso, superficialmente, che è un film sulla pandemia. Ma a me ha colpito invece come sia un film che ragiona sul senso delle immagini nel mondo di oggi, e su come le immagini possono rispecchiare, raccontare, addirittura modificare il mondo. In questo, è un film molto godardiano.

b.b.: La pandemia è un contesto, non è il tema del film. È un contesto che permette di affrontare in maniera frontale il tema della libertà e del nostro rapporto con essa. Ma penso che avrei potuto raccontare le stesse cose anche senza la pandemia. Abbiamo sentito così spesso le persone parlare del mondo com’era prima e del mondo com’è dopo, ma quello che è importante rimane il proprio personale rapporto col mondo: il mondo interiore.
Riguardo le immagini, noi viviamo in un’epoca in cui il flusso di immagini è costante, le immagini sono da tutte le parti, ma rispetto a questo flusso così disordinato è il cinema a restare forse ancora l’unico luogo in cui è possibile l’analisi dell’immagine. Ogni immagine che viene inserita in un film non è un immagine in più, di troppo, ma qualcosa che viene pensato ragionato e che ha un contesto. Coma è fabbricato con le immagini di tutti i giorni: ci sono YouTube, Facetime, Zoom, ma il modo in cui queste immagini sono dentro lo il film non le rende parte di un flusso indifferenziato: lì assumono un certo significato.
Per Godard, lo sappiamo, in un altro periodo e per ragioni diverse, fare cinema è stato il ricercare costantemente il senso dell’immagine, per questo per lui il montaggio era un aspetto fondamentale del suo cinema. E Coma è anche lui un film di montaggio.

f.g.: Non so se la mia impressione sia sbagliata, ma penso che nella sua carriera c’è un momento di cesura forte che arriva nel 2016 quando prima gira Saint Laurent, e poi film come Nocturama e Sarah Winchester. Mi pare che il modo in cui lei si approccia al cinema sia cambiato in quel momento, tra qui film.

b.b.: Ha ragione. Ho fatto di seguito L’apollonide e Saint Laurent, e subito ho visto il modo in cui si parlava di me e del mio cinema, anche sulla stampa, e in quel momento ho avuto paura di diventare una caricatura di me stesso. Mi sono spaventato e ho sentito il bisogno di una rottura. Non so se sia stata una rottura positiva, non non sta a me dirlo. Molte persone mi hanno chiesto perché dopo Saint Laurent, quando avrei potuto fare secondo loro qualsiasi cosa avrei voluto, ho fatto Nocturama: ma Nocturama era esattamente il film che volevo fare. Ho fatto la scelta importante di cambiare direzione, volevo uscire da una comfort zone, e con Nocturama senza saperlo ho iniziato una sorta di trilogia sulla giovinezza che non era prevista e che mi ha portato a esplorare cose che non avevo previsto. Anche per quanto riguarda la forma, il mio rapporto è cambiato, sono andato alla ricerca di una forma nuova. Molti registi trovano i registi trovano più semplice il loro lavoro film dopo film, ma per me è il contrario, perché quello che voglio è andare sempre più in profondità, alla ricerca di qualcosa che sia oltre. Cosa cerco? Francamente non lo so, come non so so cosa trovo o se lo sto trovando, ma credo non sia sempre una cosa buona sapere e essere coscienti di dove si sta andando, e del perché si fa un film. E a film finito il film non è mai realmente finito, perché continua a lavorare e a dare spunti di riflessione

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