Interviste Cinema

"Amiamo i nostri splendidi perdenti": Gustave Kervern ci racconta i suoi Imprevisti digitali

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Insieme a Benoît Delépine ha diretto dieci film, commedie malinconiche, anarchiche e con un lato dark come la marginalità sociale dei personaggi che raccontano. Come i tre protagonisti di Imprevisti digitali, premiato a Berlino, in lotta contro la vita tecnologica quotidiana. Ne abbiamo parlato con il co-regista Gustave Kervern.

"Amiamo i nostri splendidi perdenti": Gustave Kervern ci racconta i suoi Imprevisti digitali

“Sono perdenti, i nostri personaggi, ma sono degli splendidi perdenti”. Non ha assolutamente torto, Gustave Kervern, che in coppia con Benoît Delépine è il cantore delle adorabili marginalità della Francia profonda, periferica e alienata. Dieci film, hanno realizzato insieme, commedie malinconiche ed esilaranti, cupe e dall’umorismo lunare come Imprevisti digitali, premiato a Berlino e in uscita nelle sale il 15 ottobre per Officine UBU.

Tre vicini in lotta contro la tecnologia quotidiana, fatta di password infinite e social network invasive. Il titolo originale, che suona come ‘cancellare la cronologia’, ci dà in fondo un messaggio di speranza, di possibilità di ricominciare, anche per Marie (Blanche Gardin), Bertrand (Denis Podalydès) e Christine (Corinne Masiero, ‘un Gérard Depardieu al femminile’). Tre (ottimi) attori, in Imprevisti digitali, con cui Delépine e Kervern lavorano per la prima volta, ma non mancano piccoli ruoli, spesso esilaranti, di loro interpreti abituali come Benoît Poelvoorde, Michel Houellebecq, Vincent Lacoste, Bouli Lanners.

Abbiamo raggiunto telefonicamente nella sua semi quarantena parigina Gustave Kervern, che così ci ha raccontato la lunga collaborazione con Benoît Delépine. “Facciamo insieme da più di 25 una trasmissione comica e molto trash su Canal Plus che si chiama Groland, in cui parliamo dell'attualità francese e internazionale. Sono anni quindi che siamo allenati a riflettere su tante sciocchezze per far ridere. Poi abbiamo fatto un film, diciotto anni fa, al quale ne sono seguiti uno ogni due anni. Ogni volta ci domandiamo cosa faremo, amiamo fare delle commedie sociali e questa volta ci siamo resi conti insieme con Benoit di come abbiamo enormi problemi a far funzionare i cellulari. Saremo vecchi, ma non non rientrano nella nostra maniera di pensare. Passiamo delle ore a chiamare i call center per risolvere dei problemi amministrativi e ci siamo detti che potevamo raccontare di qualcuno che perde un sacco di tempo ogni giorno alle prese con tutti questi problemi della vita quotidiana moderna e rimane intrappolato fino a esplodere in una specie di esaurimento.”

È anche un film dell’epoca Gilet jaune, i gilet gialli, il grande movimento popolare di protesta contro la politica che ha sconvolto la Francia negli ultimi anni. 

Non volevamo fare un film sui gilet gialli, anche se amiamo tutti i movimenti di protesta, ma raccontare tre persone che si rivedono dopo aver partecipato a quel movimento nelle rotonde stradali della Francia profonda, tre vicini con problemi di potere di acquisto che si ritrovano, invece di tornare a chiudersi in casa a vedere la televisione. Era questo il lato che ci interessava maggiormente, in Francia sono stati costruiti molti quartieri fuori dalle città, in zone commerciali che sono raggiungibili solo in automobile, altrimenti sei perso. 

Trovo molto interessante come il vostro cinema sia comico, lunare, eccentrico, ma sempre ben ancorato in quello che succede nella società, nello spirito del tempo. Come equilibrare questi due aspetti, far ridere su qualcosa che non sembrerebbe divertente?

Ci sono persone che trovano il film molto triste, altri ridono molto, suscitiamo ogni tipo di reazione. Parliamo di cose molto dure, come la crisi del potere d’acquisto, ma abbiamo sempre voluto farlo divertendoci, con l’humor nero che caratterizzava i nostri sketch televisivi, su argomenti profonde come la morte.

Parlando di film sociali, è evidente che la pandemia ha modificato e sta modificando le nostre società. Come regista e artista, pensa che cambierà il suo mondo di raccontare storie, o bisogna ignorare quello che sta accadendo?

Non credo che le storie cambieranno, ci sono per fortuna tante cose da raccontare al di là della pandemia. Il problema è che le sale cinematografiche saranno molto colpite, sono i colossi che guidano il mondo economico come Facebook, Google o Apple i grandi vincitori di questa quarantena. Come mostriamo nel film, fra Uber e le serie in streaming la gente sta perdendo l’abitudine di uscire di casa e andare al cinema. In Francia abbiamo già un calo di quasi il 50% degli incassi, penso che sarà un enorme problema per il futuro del cinema, soprattutto per i film d’essai. Questo temo rimarrà, mentre la pandemia, come ogni volta è accaduto, sarà dimenticata quando sarà superata, magari con la voglia all’inizio di vedere raccontate delle storie diverse da quello che abbiamo vissuto in questi mesi.

Nel film mostrate come, in questo mondo tecnologico eppure impersonale, sia difficile anche protestare, trovare un essere umano con cui farlo.

È così, l’abbiamo mostrato anche in un film di una decina d’anni fa che ci ha dato soddisfazioni anche in Italia, Louise Michel, la storia di un operaio che ingaggia un killer per uccidere il suo padrone dopo essere stato licenziato, ma non riesce mai a trovare il vero proprietario dell’azienda, fra fondi pensione e intrecci vari, per poi finire davanti a una cassetta delle lettere con il nome della società in un paradiso fiscale. Oggi non sappiamo più a chi appartengono le società, pensi che ho fatto un incidente con una vettura a noleggio e ho passato giornate intere per contattare qualcuno dopo che mi hanno bloccato dei soldi sulla carta di credito, ma non ci sono riuscito. Le aziende se ne approfittano alla grande, del fatto di non avere contatti con i propri clienti, noi perdiamo un sacco di tempo e ci incavoliamo.

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Nei vostri film i luoghi sono sempre centrali, quella Francia periferica molto lontana, in ogni senso, da Parigi. La solitudine dei protagonisti è centrale, mentre ora il confinamento ha cambiato il significato stesso di isolamento e solitudine, pensa che questo aumenterà ancora questa solitudine diffusa?

Effettivamente, girando in quella Francia periferica, nell’estremo nord, dalle parti di Arras, ci siamo resi conto della diffidenza della gente che si chiudeva rapidamente nelle proprie case, abbiamo dovuto passare per il comune per farci aprire alcune porte. Facendolo ci siamo resi conto come ci fossero tante persone che non conoscevano neanche i loro vicini e magari si parlavano per la prima volta. Le persone sono isolate, è vero, lavorano tutto il giorno, pensano ai bambini e guardano la televisione, le abitudini ci allontanano velocemente, invece di spingerci uno verso l’altro. Non so se la pandemia abbia aiutato in termini di solidarietà, penso e spero di sì, o almeno che non li abbia isolati ancora di più.

I vostri personaggi sono malinconici, c’è dell’umorismo nero, ma è sempre presente una forte umanità. Crede che sia ancora possibile quella che definirei l’utopia dell’umanità, dell’uomo che nonostante tutto lotta e non si arrende?

La dignità dei nostri personaggi è cruciale, del resto ci sentiamo molto vicini a loro, ci identifichiamo e li amiamo. La maggior parte delle cose che mostriamo nei film sono accadute a Benoît e a me. C’è sempre in loro un lato donchisciottesco che li porta a combattere contro i mulini del capitalismo. Bisogna sempre avere le armi in mano, pronti a combattere, anche se la battaglia è persa in partenza. Sono sempre dei perdenti, ma degli splendidi perdenti. Una redenzione è possibile, si può sempre ricominciare da zero.

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