Agostino Ferrente racconta l'altra faccia del Rione Traiano con Selfie: "Con i miei film voglio raccontare chi si salva"
Il documetario del regista presentato al Festival di Berlino nella sezione Panorama.
Dopo L'orchestra di Piazza Vittorio, del 2006, e Le cose belle, del 2013, Agostino Ferrente torna a fare cinema documentario per raccontare Napoli: la Napoli di quel Rione Traiano dove la scelta di una vita criminale sembra l'unica speranza per poter tirare avanti, e dove, nel 2014, un ragazzino incensurato di sedici anni, Davide Bifolco, venne ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere dopo che lui, che era in sella a uno scooter con altri due ragazzi, non si era fermato a un posto di blocco.
"Nell'altra Napoli, quella di Posillipo e del Vomero, quella della minoranza di popolazione che rimuove freudianamente la realtà ancora maggioritaria della città, questo non sarebbe mai successo," afferma Ferrente. "Nessuno avrebbe sparato, presupponendo la bravata senza conseguenza del figlio di un professionista. Lì si spara, perché si pensa subito alla camorra e ai latitanti, c'è una presunzione di colpevolezza, come avviene nelle città americani nei confronti dei neri."
Il Rione Traiano raccontato da Ferrente in Selfie, documentario presentato nella sezione Panorama del Festival di Berlino 2019, non è però quello che ci si potrebbe aspettare. Perché come protagonisti del suo film il regista ha scelto due ragazzi, Alessandro e Pietro, amici di Davide Bifolco, che provano a farcela conducendo una vita onesta; e consegnando loro due iPhone perché si riprendessero e riprendessero la loro vita di tutti i giorni, per raccontarla a noi. "Non m'interessava la ripresa dei palazzoni, dello spaccio, di quello che vedono tutti i giorni: mi interessava il loro sguardo, il loro sguardo rivolto verso loro stessi, gli occhi di chi vede ogni giorno quei luoghi," spiega Ferrente.
Da qui anche un titolo che, per il regista, significa anche reazione a quello snobismo intellettuale per il quale "quando una tecnologia diventa possibiltà per fasce ampie e popolari della popolazione, allora diventa trash: e il selfie qui non ha nulla di trash. Nel mio piccolo ho voluto rivalutare una parola che viene bollata oramai solo negativamente."
Allo stesso modo, Ferrente voleva raccontare la realtà degradata di un quartiere difficile uscendo dai facili stereotipi e dai percorsi abituali: "Certo," ammette, "in un contesto del genere il ragazzo che si salva, in questo caso dalla malavita, è sempre l'eccezione. Ma io cerco sempre di raccontare chi ce la fa, perché l'altra faccia di quella realtà è raccontata già dalla televisione, dai giornali, e dal cinema: io con i miei film voglio raccontare chi si salva, per dire che è possibile."
"Se c'è spesso un senso di predestinazione o di una rassegnazione che sembra quasi una consacrazione laica, in chi vive in quartieri come il Rione Traiano, la colpa è anche delle istituzioni," prosegue Ferrente, "perché lo Stato non può solo essere la camionetta della polizia o i posti di blocco, o i politici che arrivano quando poi devono parlare coi capi-zona per ragioni elettorali, ma dovrebbe essere biblioteche, centri culturali, supporto all'istruzione e, quindi, creazione di alternative che ora non esistono."
Nato a Cerignola, Agostino Ferrente dice di essersi riconosciuto in Alessandro e Pietro, "perché per me frequentare un posto come il Rione Traiano è stato una sorta di ritorno alle origini: da dove vengo io Napoli ci sembrava New York, e certi miei amici d'infanzia oggi scontano il 41 bis. Quindi non sentivo distanza tra noi, anche se al tempo stesso sono da tanti anni lontano da quel tipo di realtà, e posso guardarla anche con occhi diversi."